venerdì 17 febbraio 2012

Le emozioni che precedono la parola: una consulenza privata

La letteratura psicoanalitica, storicamente, poco si è soffermata sugli aspetti comunicativi non parlati, concernenti il rapporto tra cliente e professionista. A volte un odore, dei particolari nell'abbigliamento, la trascuratezza o l'appariscenza possono costituire tracce di lavoro che anticipano e al contempo intersecano le trame emozionali rintracciabili nella narrazione dei problemi del consultante.

Il resoconto che segue si propone di trattare la questione, sinteticamente e dentro un'esperienza di lavoro diretta.

Una paziente in consulenza da circa due mesi mi avverte telefonicamente, poche ore prima dell’appuntamento previsto, di non poter venire in seduta. E’ la seconda settimana consecutiva che disdice con la medesima modalità, seppur con giustificazioni diverse. Si scusa ripetutamente, aggiungendo che sente, tuttavia, di aver bisogno di venire. Vorrebbe una seduta fuori dagli accordi già presi, in un giorno diverso da quello abituale.
Le propongo invece il consueto appuntamento settimanale, presso il Poliambulatorio. Stesso giorno, stessa ora, rimandando la discussione al momento dell’incontro.
Mi resta nella mente la questione del bisogno, che leggo quale spinta ad una gratificazione non rimandabile, alla stregua di un impellente istinto nutritivo che cancella il riconoscimento di un contesto, di una relazione ove esista reciprocità.
Questa giovane donna, S., sembra oscillare lungo il continuum ai cui estremi si pongono appetizione consumatoria e sazietà autistica, come fosse un neonato il cui unico pensiero configuri l’assenza di una gratificazione, cercata ed agita tramite l’utilizzo di un oggetto-parziale-seno di cui non si avverte nemmeno il calore del contatto.
E’ venuta in consultazione perché questo assetto relazionale, reciprocato specularmente dall’attuale compagno “accudente”, sta fallendo. Lui le rimprovera i continui atteggiamenti capricciosi, le richieste di rassicurazione sulla scia di reiterate fantasie abbandoniche. In sintesi è stanco di esistere unicamente in funzione delle insicurezze di lei. Ma al contempo la incista in questa posizione ancillare, di dipendenza, non accettando, come la stessa S. del resto, di uscire definitivamente da tale dinamica relazionale. Si sono lasciati ma non riescono a lasciarsi, perché come uno dei due dichiara l’intenzione di chiudere l’altro riprende i contatti, con telefonate, sms, o presentandosi “a sorpresa” (come la richiesta della seduta “estemporanea”) presso il rispettivo luogo di lavoro.
La telefonata che ricevo diviene quindi, nell’ambito di un setting tenuto volutamente stabile, materiale clinico importante, un nesso transferale su cui lavoriamo ampiamente.
Ma ancor più a monte c’è un aspetto emozionale non parlato che S. agisce seduta dopo seduta, aspetto che ha fortemente a che vedere con il suo essere dentro ed al contempo essere fuori dai rapporti, come chi frettolosamente va a prendersi qualcosa da qualcuno, allo scopo di saziare i propri bisogni. La donna non toglie mai il giubbotto durante i colloqui, nemmeno quando nella stanza la temperatura si aggira sui 26 gradi centigradi, grazie al funzionale condizionatore. E’ come se S., con una parte di sé, fosse altrove anche quando mi siede di fronte, quasi entrasse in un negozio in chiusura per fare l’ultimo acquisto.
Non è la prima volta che ironizziamo sulla sua succinta corazza, ma è solo quando integriamo il dentro, noi entro il setting, ed il fuori, le sue relazioni esterne che S. inizia ad elaborare il senso simbolico dell’esserci e del non esserci, del predare il nutrimento emozionale per poi saziarsi, ripetendo un ciclo inesorabile di egocentrico infantilismo. Di lì una serie di costruzioni delineate assieme, per connettere sulla falsariga di quella lettura, altri eventi significativi della sua vita sociale, familiare e lavorativa.