lunedì 23 marzo 2020

Vecchi(a)



Tra la fine degli anni 70 e l'inizio del decennio successivo ero un bambino. Durante le vacanze estive ero solito passare più di un mese in Abruzzo con i miei nonni. Poche anime in uno sperduto paese nel cuore dei monti della Laga. Mi capitava spesso di sottrarmi al rigido controllo degli adulti. Inventavo scuse che la mia vecchia, in particolare, era solita bere. Poi come potevo raggiungevo qualcuno dei pochi, giovani pastori sparsi sui bordi delle “coste”. Giù, poco fuori dal bosco di faggi, abeti e querce. Oppure su, alle pendici della montagna. Sapevano suonare i fili d’erba, zufolando magicamente. Parlavano poco o nulla, sforzandosi con generosità di farsi capire, addolcendo quel dialetto spigoloso e cantilenante, nel quale potevi scorgere assonanze al francese. Quando riuscivo a stare di più, dimenticandomi il trascorrere del tempo, raccontavano storie di streghe e lupi mannari. “Se scappi e sali le scale ti puoi salvare…”. “Ma è molto difficile, invece, sfuggire all'invidia e all'occhio cattivo”. Le streghe, si diceva, entravano nottetempo nelle stalle, intrecciando con maestria le criniere dei cavalli che al mattino i proprietari trovavano sudati e in agitazione. Si insinuavano, queste strane donne selvagge, nel cuore delle case, sottraendo i lattanti per diletto. Giocavano a lanciarseli, beffandosi forse del senso conformista della maternità, per poi rimetterli nelle culle. Figlie dimenticate e fedeli solo alla Selva, madri di un atavico desiderio di svincolarsi dalla vita comune, non avrebbero mai vissuto l'esperienza della filiazione. Nessuna discendenza dalla loro linea di sangue. Di lì, forse, quel dissacrante svago.
Quando tornavo eccitato e nervoso mia nonna mi chiamava a sé. "Hai l’occhio cattivo, oh lo fije mì. Vì qua che nonna te lo leva". Con gesti solenni prendeva un piatto da cucina per colmarlo d’acqua. Inzuppava poi due dita nell'olio e ve lo colava, recitando impercettibili formule che sembravano enormemente misteriose. Le gocce gialloverdastre quasi esplodevano a contatto con l'acqua. "Hai visto? Eccolo, eccolo".  "Che dici nonna, perché parli sotto voce"? "È un segreto, non te lo posso dire". Quando l'olio smetteva di spandersi, rimanendo compatto per una mera questione chimica, il rito terminava. Il male era vinto. E con esso la mia esuberanza. 



Ecco un ricordo d'infanzia che spesso mi sovviene. Come ora, mentre penso a cosa significhi per me "vecchio". "Vecchia", anzi. Preferisco coniugare al femminile perché donna è stata chi si è presa cura di me. Più degli uomini. Almeno per un lungo periodo della mia crescita. La nonna di cui scrivo è ancora viva. Le devo molto. Il fatto che sia riuscito a laurearmi, per esempio. Studiavo a casa sua, a pochi metri dalla facoltà di psicologia. San Lorenzo, nel cuore di quella Roma popolare che ho sempre amato fino alla commozione.

Oggi la mia vecchia è quasi novantenne, vive con la badante. Parlarci al telefono è una mezza impresa. Sente poco e ti sovrasta di parole. E' un fiume in piena che tracima fangose lamentele di acciacchi. Ma chissà quando la rivedrò, voglio farle sentire che ci sono.


Dovremmo ricordarci dei vecchi, il coronavirus pare non averceli troppo in simpatia. E nemmeno la società ossessionata dalla produttività in cui viviamo. Forse si dimentica un dato significativo. L'età media in Italia è di 44, 9 anni. Più del 35% del Paese supera i 65. Insomma, non siamo più giovani nemmeno noi e se lo siamo ancora smetteremo a breve. Senza accorgercene, perché come dice Tolstoj la vecchiaia è la più inattesa tra tutte le cose che possono capitare ad un uomo. 

Ho conosciuto il più importante tra i miei maestri quando era già piuttosto in là con gli anni. Psicoanalista di straordinario spessore umano e professionale, ha fatto la storia della disciplina in Italia. Privatamente, con i colleghi suoi allievi, l'ho sempre chiamato affettuosamente il Vecchio. Era il mio modo di de-mitizzarlo, di renderlo nominabile senza sentirmene schiacciato. Si capiva comunque che il modo in cui lo dicevo malcelava un grande rispetto. L'esperienza si misura in anni e quell'uomo ne aveva, ne ha da vendere. Da tramandare, anzi. Man mano ci siamo voluti bene sul serio, ovviamente senza dircelo mai apertamente.  Certe cose si capiscono, non c'è bisogno di parole. Mi inorgoglisce la sua stima nei miei riguardi. Lo considero, in senso ampio, un padre.
Mi riamane più difficile invece, dare della vecchia a mia madre. Ma per gli stessi motivi, paradossalmente. Non la vedo da tanto, se non in video-chiamata. Ne ho percepito la tristezza qualche giorno fa, tra le pieghe tonali della voce. Non me lo direbbe mai per non appesantirmi il cuore. Non è sola ma sente nostalgia, per la sua unica nipote soprattutto.
Per arrivare all'alba non c'è altra via che la notte, mamma. Tieniti viva, ci rivedremo presto.


Fatevi sentire, non solo per colmare i vuoti dei vostri giorni. Fatelo avendo a mente a chi sa gioire per molto meno di voi.






domenica 22 marzo 2020

Ripensare l'attesa per ricominciare da oggi. Psicoterapia in video-seduta


Il Governo italiano, dopo una politica di progressivo restringimento, ha deciso di interrompere la quasi totalità delle attività produttive. Forse sarebbe stato più logico fermare tutto dall'inizio, per poi tornare gradualmente ad aperture mirate e strategiche. D'altro canto misurarsi con una situazione del genere è quantomeno complesso. Non vogliamo polemizzare.
Come ognuno di voi, stiamo facendo i conti con le misure dettate da una contingenza che non è esagerato definire devastante. Giorni di ansia, paura, di schizofreniche oscillazioni tra l'ottimismo e la depressione. Sì, esiste anche tra gli psicologi. Momenti che invitano a mollare, a posticipare progetti che finiscono nel calderone del "quando tutto ripartirà”. Come genitori pensiamo a nostra figlia e al bimbo in arrivo, alla necessità di riorganizzazione familiare, alla fatica di ristabilire un ritmo e una cornice in una quotidianità che sembra sfumare, tra le pieghe del nervosismo e dei conflitti che ne scaturiscono. Ma pensiamo anche al lavoro portato avanti con i pazienti, provando rabbia, tristezza, frustrazione nel vederlo interrotto bruscamente.
Serve una scossa, un confronto, una spinta a volgere lo sguardo su quel che si può fare in tal senso. Ci vogliamo occupare del tempo, per non cedere all'idea che il futuro è domani, quando ogni cosa ricomincerà ad andare da sé. Non vogliamo lasciare il passo al vissuto mortifero che cancella la possibilità di incidere sulla vita.
E' successo qualcosa stamattina, una di quelle piccole cose che se "viste" possono aiutare a cambiare prospettiva. E' sbocciato un tulipano rosa in balcone, piantato mesi fa da nostra figlia Anna. 


Lo abbiamo preso come un segno; la vita ha una sua forza, riesce a imporsi di proseguire là dove noi sentiamo il principio di un abbandono. E spiazza, perturba e disconferma il vuoto verso cui, a volte, vorremmo perderci. Lo stesso che avvertiamo quando il tempo si allunga come un'ombra su giornate che ci sembra persino inutile contare. Ma il tempo non può coincidere col vuoto, perché è proprio la vita a riempirlo, al di là di noi. Possiamo restare a guardare inermi. Oppure lasciarci coinvolgere. Ri-dargli valore.
Ci siamo chiesti allora qual è il contributo che possiamo dare in un momento in cui le sensazioni di morte e di perdita rischiano di prevalere sul tornare a essere nel flusso vitale. E di fare qualcosa, nonostante tutto. Non è mai vero che "tutto è nulla", mai.
Tanti i dubbi e le incertezze ma su una cosa non c'è stato tentennamento: il desiderio di restare in rapporto con l'altro, o meglio di riscoprirlo.
Qui nasce la proposta, faticosa e allo stesso tempo intrigante, di riorganizzare il nostro lavoro usando gli strumenti tecnologici a disposizione.
Gran parte di ciò che facciamo come professionisti ha a che fare con la psicoterapia. Al momento non possiamo incontrare persone dal vivo. E' un problema comune. C'è un solo modo. Utilizzare le chiamate video.

Perché una video-seduta?

Perché è l'unico strumento attuale che consente di preservare la percezione di una vicinanza che passa dai sensi. E' vero, non ci si può più stringere la mano, recarsi presso lo Studio, pianificare lo spostamento e il ritorno. Lo spazio diventa più mentale che fisico. Ma tolto questo restano le parole, gli sguardi, le emozioni che si dipingono sul viso. Resta il calore di rivedere qualcuno con cui si sta lavorando proficuamente, entro una dimensione di reciproco e profondo affetto. In tal senso vengono alla mente i nonni che si attrezzano per stare al passo con le tecnologie, pur di “incontrare” i nipoti; oppure gli amici che vivono lontani e che in questi giorni difficili stanno sviluppando la consuetudine del video-chiamarsi.
Non è un automatismo, probabilmente per nessuno di noi. Almeno fino ad ora. Ma l'alternativa è l'isolamento progressivo, mentre tutto quello che abbiamo costruito rischia di essere disinvestito, fino ad esaurirsi. Potremmo trovarci, una volta finito questo triste periodo, a dover ricominciare da capo, con una fatica soverchiante. La proposta è, di contro, considerare il futuro a partire da ora. Non domani, dopodomani o nel cerchio rosso di un ipotetico calendario privato o governativo. Come se dovessimo rassegnarci a un "letargo" fatto di veglie angosciose e sonni di oblìo; di negazioni, resistenze e semplicistici “andrà tutto bene”. Non andrà bene se ci immergiamo in attese impotenti. Stiamo cercando di assumerci la responsabilità di dire: dipende anche da noi. Soprattutto da noi riorganizzare il presente per configurare un futuro che risponda al nostro impegno.

Chiara Panattoni e Fabrizio Casuccio



venerdì 13 marzo 2020

L'amore ai tempi del coronavirus: lettera aperta al figlio che verrà.

Caro Diego,

tra due mesi sarai dei nostri, ma nascerai nell'anno più nefasto dal dopoguerra ad oggi. Ci penso, sai, a questa strana sovrapposizione di vita e di morte. Mentre scrivo i contagi da coronavirus hanno superato i 13000 casi; i morti sono più di mille. Pare sacrilego dire, oggi, che qualcuno sta venendo al mondo; ma non voglio dimenticarmene. Non adesso.
Siamo chiusi in casa da quasi una settimana. Il tempo sembra scorrere più lentamente e l'angoscia del sospendere le proprie consuetudini, talvolta, dilaga. In quei momenti ripenso a cosa abbiamo costruito negli anni, come comunità e in qualità di uomini. Inorridisco e ripiego su me stesso. Mi domando: e tu? Tu, Fabrizio, che cosa hai fatto? Mi rispondo senza parole che ho vissuto di lavoro, di emozioni, quelle delle persone che ho incontrato e che hanno evocato, contattato, trasformato le mie. E viceversa. Una relazione psicoterapeutica può cambiarti davvero. Non sono più lo stesso di 15 anni fa e nemmeno quello di ieri. Quante storie ho vissuto. Da questo punto di vista mi sento ricco. C'ho provato, sempre, a dare il meglio. A dare una mano, a guardarmi allo specchio senza provare il ribrezzo che nutrivo per me stesso, tanti anni fa.
Sostengo, spesso con chi incontro, che non serve cambiare il mondo, perché di mondi ne esistono infiniti e ognuno di noi può fare piccole cose per i propri piccoli mondi. Eppure provo una sensazione di inadeguatezza, adesso. Di smarrimento e di vergogna. Il pianeta su cui viviamo è comunque Uno. In nome del riconoscimento dei miei limiti, o del mio egoismo, me ne sono dimenticato. Non me ne sono curato. Forse nessuno di noi se ne è davvero reso conto, proprio nell'idea di infinito. Anzi, di infinite risorse. Abbiamo continuato a depredare, a tirare dritti entro la nicchia dei propri tornaconti. Individuali, comunque, che fossimo persone, nazioni, aziende o multinazionali. Ognuno per sé, figlio mio. Ognuno per sé.
Come ora. Chiusi in casa. Ognuno per sé. Singolarità alla stregua di chi, diceva De Andrè, può "permettersi il lusso della solitudine". Me lo posso consentire, questo sì. La famiglia di cui farai parte può tenere botta. Potere Diego, potere. Quello economico, in primis. Soldi del cazzo accumulati nel corso degli anni. E distorsioni nel simbolizzarne la presunta erosione. Mi passa per la mente che se continua così ne avremo molti meno. Poi però mi ricordo di Lucia, l'ho sentita al telefono proprio ieri. Licenziata da un negozio di abbigliamento in un centro commerciale qua vicino. Dopo anni di ricerca, tre figli a carico e un ex marito poco disposto a darle un aiuto. E così via per tanti, per troppi. E' necessario, certo, stare a casa. Prendersi la responsabilità di preservare la salute, altrui e propria. Ma anche dietro al bene, come un giorno capirai, si annida il male. Ha la faccia dell'opportunismo, della demagogia, dei demiurghi della finanza. E nella fattispecie ha le sembianze di imprenditori cui non conviene tenersi dipendenti fermi, due, tre o quattro settimane che siano. Mi dispiace, ma è necessario. Ordini superiori, il decreto del Governo parla chiaro.
Chiudere tutto, sono d'accordo. Ma con quali prospettive? Se ci dimentichiamo del futuro alimentiamo la già imperante tendenza egoistica. Vivere alla giornata concerne ancora una volta l'occuparsi solo di sé.
Mi mancano le persone che non posso vedere faccia a faccia. In compenso tua sorella è maledettamente gioiosa in questi giorni. Ha l'opportunità di stare in una triade che normalmente si ricompone solo per un tempo sporadico. Mamma, papà e Anna. Mi correggo: mamma con dentro te, papà e Anna. Siamo già quattro, seppure non possiamo vedere la tua faccia. Non vediamo l'ora di conoscerti piccolo mio. Speriamo che dopo la metà di maggio, quando sarai pronto a stare in questo strano, lurido mondo, gli ospedali saranno meno vessati dall'urgenza di chi sta male. Tu rappresenti la speranza che si possa ricominciare in modo diverso. Sei l'amore ai tempi del coronavirus. Mai come in questi momenti mi sono chiesto cosa voglia dire questa parola. La più abusata e interrogata lungo il continuum che unisce arte, poesia, musica, religione, filosofia, psicologia...Amore. Un tempo mi faceva ribrezzo quasi più di me. Oggi credo che voglia dire continuare a occuparsi di qualcuno per andare in una direzione che abbia senso per la convivenza. Riguarda il pensare con cura a chi non diamo per scontato, per fare qualcosa insieme. Per andare in una direzione sostenibile. Per smettere di essere monadi, per sentire la mancanza di chi non c'è, onorandone la memoria o progettando il giorno del ricongiungimento.
Ecco, la mancanza di chi non c'è. Quando pensiamo le assenze finiamo per desiderare. E l'amore è la declinazione più alta della capacità di desiderare di non essere soli. Perché non ci bastiamo più. Questo momento storico ce lo sta mettendo davanti al muso. Re-imparare la solitudine per incontrare davvero l'altro. Lo faremo con te, figlio mio. E tu, tu, uomo che sarai, lo farai a tua volta.
E' quel che spero per te. Per il mondo che verrà.

Con amore,
papà.


martedì 23 gennaio 2018

Dio e la religiosità in psicoterapia: alcune riflessioni.

Viviamo radicati in una profonda, millenaria cultura cattolica. Asserzione banale, certo; ma lo teniamo presente quando, ad esempio, lavoriamo come psicologi? Ridurre la tematica della fede e della religiosità a questioni di poco conto è una leggerezza che può anche tradursi nella chiusura unilaterale di un rapporto psicoterapico, soprattutto se la persona che abbiamo in consulenza continua a parlarcene o ad alludervi ripetutamente.


Più o meno tutti abbiamo attraversato momenti fusionali con una rappresentazione di Dio ereditata da indottrinamenti familiari ed ecclesiastici. Siamo passati dal credere a tutto al sollevare dubbi, perplessità; sino ad interrogarci e al chiedere numi circa l'utilità dei dogmi, gli stessi che uccidono le domande con risposte che non consentono alcuna polisemia. E' così...punto.
Poi la ribellione, la rabbia giovanile che metonimicamente si sposta da un oggetto di odio all'altro, facendo di macerie e cadaveri (simbolici, si spera) l'orizzonte omogeneo del nostro sguardo.
Quello tratteggiato non è un percorso universale, ci tengo a precisarlo. Ci sono infinite declinazioni della relazione con Dio, una delle quali può prevedere il medesimo, acritico assetto. Sino alla morte. Ciò è vero soprattutto per chi, per motivi anagrafici o di posizione ideologica, non ha impattato il '68 e ne ha ignorato (o negato) le conseguenze sovversive nei riguardi dei poteri costituiti.


Eppure a ben vedere con Dio non è mai tutto scontato e, di converso: non è mai del tutto vero che si diventa atei qui in Italia. Non sono un esperto di demografia dell'ateismo, è comunque verosimilmente non credente uno scandinavo, un cinese, un olandese o un australiano. Non un italiano.
Da noi i residui di una fede rinnegata sono tracce incancellabili, perlopiù. Si intravedono nei sogni, si notano nei codici morali delle condotte, si evidenziano drammaticamente nelle dinamiche della colpa e della vergogna.
E' interessante notare che molti psicologi continuano a sposarsi, anche in chiesa. Si tratta di un dato in controtendenza. Ma non so quanti psicologi arrivino a riconoscere il peso specifico della propria parte di sé cattolica. Perché un paio di maniche è ri-conformarsi, sulla scia di una giovinezza evaporata, ad uno status quo ante. Altra cosa è guardare dentro quei resti, i residui di cui scrivevo poco più su...
In questi anni, più di dieci, di lavoro clinico, ho imparato ad avere rispetto per chi crede. Rispetto vero e profondo, perché entro la cornice della fede ho visto compiersi gesti di aiuto, di solidarietà e sostegno alle minoranze; ho visto e ascoltato persone autenticamente interessate all'altro. Ho raccolto storie commoventi dove il proprio modo di vivere Dio è stato un propulsore rilevante e centrale per lo sviluppo di individui e comunità.
Quello che pongo alla riflessione, mia e di chi legge, concerne la pericolosità del sentire il monoteismo cristiano quale dimensione puramente trascendente. L'esclusivo, univoco rapporto con chi crediamo guidi il nostro destino dall'alto, dentro un disegno, una teleologia già data a priori. Non mi soffermo sul problema intrinseco ai monoteismi, ossia il configurare chi non crede come scarto dal praescriptum, quale nemico estraneo al verbum dei. Ne conosciamo, tristemente, gli estremismi.
Preferisco un esempio concreto.
V. è un uomo che ha più di sessant'anni. Viene da me perché, a suo dire, ha "momenti di assenza". In altri termini V. soffre di stati dissociativi ripetuti, pezzi di un tempo sottratto alle relazioni ostensibili e usato per ritirarsi nel proprio mondo interno.
Spesso in quel mondo privato, silente, incomunicabile alla sua famiglia, V. cerca la "voce di Dio". Simbolizza confusivamente "Il Signore" come Colui che gli mostrerà la via, esentandolo dalla responsabilità di riprendere in mano la sua esistenza, segnata da lutti (uno dei quali traumatico e devastante) e sopratutto da errori del passato di cui continua a colpevolizzarsi. E' convinto che deve esimersi "dal fare qualcosa", dal configurare un progetto per il suo futuro, perché "Lui vede e provvede". Prega spesso, in solitudine, eppure una remota parte di sé, non più totalmente sepolta dalla difesa maniacale del diniego onnipotente, lo ha condotto in consultazione psicoterapica. Non si tratta forse di una scelta, di un'azione che contrasta con l'idea di passività che si auto-attribuisce?
Queste scissioni emozionali, di cui comincia ad avere percezione, lo incistano in una sofferenza tremenda. D'altro canto i suoi laceranti dubbi sul senso del divino e della vita non riesce a condividerli. La sua facciata ufficiale, in famiglia, è quella del Padre rigorosamente cattolico e moralista. Tra lui e i figli, per esempio, la figura di Dio è un ingombro che finisce per dividere, fino a divenire un Terzo ideale al quale egli si aggrappa per sfuggire alle incomprensioni, per tentare di imporne la venerazione o per saturare ogni discorso in cui sente divergenza dalle proprie convinzioni.
Arriva a dirmi che per lui Dio è più importante dei propri figli, allineandosi alla superiorità dell'etica religiosa con cui Soren Kierkegaard connota il sacrificio di Isacco da parte di Abramo.
In linea con quell'affermazione, seppur inconsapevolmente, racconta della visita della figlia, giovane donna che vive in Olanda. Lei vorrebbe parlargli (si scoprirà solo tempo dopo che aveva desiderio di comunicargli qualcosa di molto importante) ma lo trova davanti al televisore, a seguire il Santo Rosario. V. le chiede di aspettare qualche minuto, legittimamente, dato che sta facendo qualcosa per lui molto importante. Ma la figlia scappa via in lacrime e tronca ogni discorso...
Preso in sé l'episodio sembra un capriccio "regressivo" da adolescente (la ragazza ha ben oltre vent'anni). Il punto è che V. reitera di continuo queste mancanze di attenzione e tatto nei confronti dei propri cari, in nome di Dio.
"Avevo fame e mi avete dato da mangiare..."; "Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me...". Rispondere a una domanda, umana. La domanda di una persona qualunque. Dovremmo ricordarci di questa corrispondenza immanente tra l'umano e il divino. Non sei d'accordo V.? Riconosci queste parole?
E' da qui che siamo ripartiti, e forse sta anche qui il senso profondo di una relazione psicoterapeutica. Aiutare qualcuno a cambiare mitologie disfunzionali, sino a riedificare miti più utili alla convivenza produttiva...
Pensiamo alla scissione di V., ma anche alla scissione, su un piano più ampio, tra il trascendente e l'immanente.
Immanente, da immanentem, composto dalla particella in che indica quiete e da manentem, participio passato di manere, ossia rimanere. Rimanere quieti, in qualche modo aperti all'incontro con l'altro. In filosofia l'immanenza fa riferimento a ogni realtà coessenziale con altre. Permanente in altrui e che in altrui non passa, recita una definizione antica e splendidamente "simmetrica", per dirla con Matte Blanco.
Ogni relazione duale, tra l'altro, ne rende coessenziali i due partecipanti. Ma ogni relazione per essere produttiva di "qualcosa di terzo" (una condivisione, un progetto congiunto, una riflessione posta a qualcuno che la arricchisce) deve "trascendere" la dualità, avere un vettore che ne fuoriesce.
V. aveva fatto del rapporto con Dio una questione puramente trascendente, ma racchiusa in una dualità privata e mortifera. La trascendenza non può essere duale, pena l'attorcigliarsi in un paradosso. Dio e me stesso...Dio è lassù, fuori di me...ma al contempo, dentro di me, ne sento la voce. È ciò che dice V., il quale tuttavia non si accorge di chi gli è prossimo. Eppure se riconosco la presenza divina in me (essere all'unisono con il riflesso di Dio) devo necessariamente coglierla nei miei simili. Altrimenti sono io a elevarmi, a trascendere me stesso nella "deità".
Di contro se Dio o (laicamente) le qualità umane che riconosco in me le vedo anche nell'alterità, recupero la dimensione immanente (comunitaria) che posso riconnettere a ciò che trascende. Trascendere, ossia salire al di là. Ciò che ascende al di là di noi, però, non può essere (del tutto) previsto, prescritto o già segnato dal destino...
La variabilità ci sorpassa salendo.

Colui lo cui saver tutto trascende, fece li cieli...




domenica 27 novembre 2016

Della generosità...

Un'anziana signora, a sua volta residente  nel palazzo dove vivo, mi ferma per le scale. Sa che sono uno psicologo, vorrebbe un incontro per parlarmi di un suo grave problema. Accetto volentieri. Viene e racconta del suo ossessivo accumulare oggetti di ogni sorta, tendenza che dura da molto tempo e che di recente ha assunto proporzioni ingestibili. E' talmente incapace di separarsi da ciò che possiede al punto di non avere più spazio nemmeno per ricevere una visita. I figli, adulti, vivono altrove con le rispettive famiglie. Ma non possono andare a trovarla senza inciampare in qualcosa, muovendosi a stento tra le infinite cianfrusaglie, le buste, gli scatoloni.

Tralascio gli sviluppi della vicenda da questo punto di vista; tuttavia è interessante notare il nesso tra questa difficoltà a separarsi da ciò che si ha, cristallizzando lo scorrere del tempo, feticizzando la propria storia per tenere a bada l'angoscia della perdita, attraverso una ritenzione compulsiva, e la generosità della quale la signora continua a fregiarsi con orgoglio.
Mi dice, in relazione al proprio altruismo, che da molti anni ha adottato a distanza un bambino peruviano. Oggi quel bimbo è un ragazzo di circa 19 anni. Avevamo dei progetti per lui (lei e gli operatori dell'associazione religiosa che lo ospitano sin da piccolo), mi spiega. Andava bene a scuola e con le suore dell'istituto, finite le superiori, stavamo pensando di iscriverlo all'università. Poi che succede? Che sto ragazzo non ne vuole sapere!! Capisce, dottò? Questo vuole fare il meccanico. Ma come il meccanico??!! Co' tutti i soldi che gli ho mandato...Allora lo sa che ho fatto? Ho smesso di mandargli i soldi. E' stata una delusione.

E' chiaro qual è l'aspetto drammatico della "generosità"? In questo caso risulta addirittura paradigmatico. Tale altruismo, auto-attribuitosi dalla signora, è in realtà una cruenta modalità di far fuori il desiderio dell'altro. So io qual è il tuo bene! Non vorrai mica azzardarti a costruire una tua identità, a fondare un tuo progetto di vita!

Ho preso spunto dalla narrazione dell'episodio (anche triste, direi) non per condannare la mia vecchia vicina di casa; piuttosto per svelare rapidamente l'evidenza bi-fronte dell'altra faccia della generosità. Quella che smuove interi gruppi sociali, organizzazioni e singoli individui in nome del bene. Quel bene precostituito a modello ideale cui conformare la plasmabilità di chi spesso è debole e senza il potere di convenire su ciò che vuole. Vengono alla mente i bambini e i malati di mente senza domanda nei riguardi di trattamenti e diagnosi oggi alla moda; basti pensare a quanto di recente siano aumentate le segnalazioni, nella scuola, dei cosiddetti DSA (disturbi specifici dell'apprendimento: dislessia, disortografia, disgrafia, discalculia, dis...chi più ne ha più ne metta...). Attorno all'esasperazione diagnostica si muovono reti di professionisti che si inviano, tra infiniti rimbalzi, ragazzini delle cui difficoltà "nel luogo" della relazione con i contesti (scuola e famiglia, per esempio) nessuno si cura. Ridotti a individui da raddrizzare, questi sfortunati bambini finiscono nelle mani di persone che sotto il vessillo della prodigalità nascondono ben altri interessi economici.
Stesso discorso per le derive da "dispensazione farmacologica" di certa psichiatria...alla faccia di chi ha fatto della fenomenologia psichiatrica un complesso modello di ricerca e di valorizzazione della dignità e della soggettività umana.

Per incidens, tornando alla signora di cui sopra: conserva con cura le lettere che il ragazzino le scriveva (non è difficile immaginare che lo facesse forzatamente, obbligato da un adulto). Eppure dal fornire un sostegno a ciò che il giovane realmente voleva, la donna è riuscita a separarsi. Definitivamente.
Curioso infine rilevare come l'etimo di generosità coincida con quello di genere, generare, genitore. Qualcuno diceva che per quanto un figlio sia partorito, generato endogamicamente, per ri-conoscerlo davvero egli vada comunque adottato. Ad-optare, desiderare, scegliere. E desiderare e scegliere non riguarda solo noi e la nostra spinta al possesso. Concerne, necessariamente, l'alterità. O meglio: la domanda dell'altro.

sabato 12 marzo 2016

Per chi si rialza...






Overcast, the branches bare
The autumn leaves have fallen
I can hear the magpies laugh
I can't shake this melancholy
And then the clouds break
A ray of sunlight - Gloria!
As if a promise
Some strange kind of euphoria
Dark phantoms of the past
Some things are best forgotten
Like Orpheus, don't look back
Best years are waiting for you
And then the clouds break
A ray of sunlight - Gloria!
As if a promise
Some strange kind of euphoria
And in the darkness
A ray of sunlight - Gloria!
As if a promise
Some strange kind of euphoria
Euphoria
Euphoria
Euphoria





A cosa serve lo psicologo? Alcune riflessioni

Sono stata da uno psicologo tempo fa. Un'esperienza breve ma utile...poi ho smesso di andarci perché stavo meglio.

Mio figlio ci andava sì, c'è rimasto per un pò ma poi ha smesso di andare perché stava peggio.

Ecco due asserzioni, due modi complementari di connotare un percorso di consulenza psicologica. Due presunte verità che giustapposte finiscono per essere una contraddizione in termini, un paradosso logico. In realtà queste rappresentazioni rendono unicamente evidente il senso comune che le sussume. Ossia che si va dallo psicologo per attutire uno status di sofferenza; quindi per affidarsi a qualcuno che ci esima (magicamente?) dal provare angoscia, dolore, afflizione, panico...e si potrebbe continuare a lungo.
Non sto dicendo che non sia legittimo affidarsi a uno psicologo con una sintomatologia simile, sarei uno sciocco. Ma appunto, si tratta di sintomi e vissuti che necessitano di essere trattati analiticamente, cioè devono essere (ri)collocati in un percorso di attribuzione di senso. Un senso che lasci da parte le scontatezze, i consigli, le semplificazioni e le rassicurazioni. Si tratta di sviluppare, con lo psicologo, un pensiero competente, fondato su modelli di lettura complessi, sugli eventi problematici che ci hanno condotto in consultazione.


Lacan diceva che andare in analisi equivale a darsi la possibilità di ripartire, di rialzarsi e ricominciare a vivere. Ri-conoscere la contingenza di un momento critico e darsi la possibilità di trasformarlo in un'occasione.
In un'epoca edonistica, liquida, dissolta nel presentismo mass-mediaco e nella rarefazione della fiducia nei rapporti, risulta quantomeno controcorrente fare una scelta come questa. Chi cazzo me lo fa fare? Mi prendo un pò di Xanax, magari mi faccio prescrivere un antidepressivo di nuova generazione e via...ho risolto. Altro che psicologo!



Già, eppure con alcuni miei pazienti ho un rapporto che dura da anni. Sono idioti, mentecatti che si fanno raggirare? No di certo. Spesso sono donne che hanno il coraggio di guardare in faccia le loro emozioni, di guardarle e trattarle con tutto il carico di sofferenza che comporta il mettersi profondamente in discussione. Qualcuno diceva che non può esserci apprendimento senza frustrazione e poche cose sono più vere e autentiche di questa riflessione. Apprendere, sì. Apprendere un metodo per continuare a fronteggiare gli accadimenti, gli scivoloni, le contraddizioni, le docce fredde e le soddisfazioni che la vita, che la variabilità della vita continua a mettere sul nostro cammino.
Lo sanno anche gli uomini come Giuseppe, Sandro, Jacopo, Carlo...persone del presente e del mio passato di professionista i cui volti mi tornano in mente mentre scrivo. Sanno, dopo un significativo percorso psicoterapeutico, che l'importante non è ciò che hanno fatto di noi ma quel che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi (J.P. Sartre). Non si tratta di mandare a memoria una formuletta pseudo-esistenzialista. No. Si tratta di lasciarsi attraversare da una quota importante di sofferenza per traguardare ad altro: alla soggettivazione del nostro desiderare; alla connotazione progettuale di un nuovo futuro configurabile. A partire dal presente.