Il blog è vivo, nonostante la mia latitanza e gli eventi che l'hanno determinata. Molte cose sono cambiate nella mia vita, alcune delle quali drammaticamente.
Qualcosa di bello è comunque accaduto. Sono diventato ufficialmente uno psicoterapeuta. La mia tesi di specializzazione è stata pubblicata sulla Rivista di psicologia clinica, sezione "Quaderni della rivista".
E' possibile consultarla, previa registrazione, a questo indirizzo: http://www.rivistadipsicologiaclinica.it/ojs/index.php/quaderni
Auguri di buon anno a tutti. A presto, Fabrizio
martedì 31 dicembre 2013
giovedì 2 maggio 2013
La ludopatia e le dipendenze da gioco d’azzardo
Il termine “ludopatia” (da lùdus, gioco e da pathos,
malattia) si riferisce alla dipendenza da gioco d’azzardo. Si tratta, da un
punto di vista terminologico, di un neologismo, coniato recentemente nell’ottica di medicalizzare [1] uno dei più preoccupanti e recenti fenomeni psico-sociali del nostro tempo.
In realtà la nosografia psichiatrica si è da tempo espressa circa le
cosiddette dipendenze patologiche. Le classificazioni, tuttavia, continuano a
proliferare in linea con il trend attuale dell’abbassamento delle soglie
problematiche. Oggi l’etichetta “dipendenze” non include soltanto l’abuso di sostanze
psicoattive, ma arriva a inglobare tutta una serie di comportamenti “morbosi”
che rientrano nello spettro dei “disturbi del controllo degli impulsi”. Il
comune denominatore di tali disturbi consisterebbe nell'incapacità di resistere
a un impulso, a un bisogno impellente, alla tentazione di agire pericolosamente,
sentendosi mossi da una eccitante tensione che persiste sino alla scarica
dell'atto consumatorio. La gratificazione e il sollievo del momento, tuttavia,
sfumano rapidamente, lasciando il soggetto in uno stato di rimorso,
auto-riprovazione, senso di colpa.
Le dipendenze si allargano a macchia d’olio. I rapporti con Internet, con
lo shopping (compulsivo), con il cellulare, con il sesso, con il lavoro e, per
l’appunto, con il gioco d’azzardo, vanno ad alimentare questa tendenza a
“costruire” nuove malattie.
Il punto è: si è in grado di curarle? Evidentemente no, perché il modello
psichiatrico non è equiparabile al modello medico. Non si guarisce
dall'acquistare troppi vestiti o dallo sperperare denaro in gratta e vinci.
Nemmeno con gli psico-farmaci.
Che fare allora, considerando che chi vive questi problemi non sembra avere
alcuna intenzione di curarsi? E’ piuttosto raro che ci si rivolga a
professionisti psicologi con una domanda d’aiuto diretta. Già nel 1920 Freud
sosteneva che “nella vita psichica esiste davvero una coazione a ripetere la
quale si afferma anche a prescindere dal principio di piacere” [2].
Piacere e auto-distruzione si intrecciano sino al parossismo nelle dinamiche
del gioco d’azzardo patologico. Così si può andare avanti per anni, perpetrando
quello che diventa un rituale di evocazione magica e di sfida, di seduzione e
rabbia persecutoria nei confronti della “dea bendata”, senza rendersi conto
della gravità della situazione. E’ solo quando si tocca il fondo, quando si
arriva ad attingere di nascosto al denaro dei familiari, quando si distrugge
l’affetto e la fiducia dei propri cari che qualcuno prova a dire basta. E quel
qualcuno, comunque, non è la persona “ludopatica” (è una rara eventualità). Si
tratta, per l’appunto, di famiglie esasperate dall’impotenza (nel non chiedere
aiuto) e dall’onnipotenza (nel non smettere mai di giocare, sino a negare i
dati di una realtà sempre più disperante) di chi manda in rovina la convivenza.
Già, perché è di questo che si tratta. Le “ludopatie” distruggono la
capacità di convivere entro sistemi sociali, quali la famiglia, fondati sulla
fiducia e sulla reciprocità nel condividere. Lo psicoanalista e psicosociologo
Renzo Carli definisce “collusione” la simbolizzazione affettiva del contesto da
parte di chi a quel contesto partecipa [3].
La collusione, quindi, è un processo di socializzazione
delle emozioni, che proviene dalla condivisione emozionale di situazioni
contestuali. La collusione, in altri termini, è il tramite emozionale che fonda
e organizza la costruzione delle relazioni sociali, grazie alle emozioni
condivise (pag. 11) [4].
Colludere, fuori dall’aspetto illecito e clandestino che il senso comune
gli attribuisce, significa, per esempio, simbolizzare reciprocamente come
“amico” il contesto familiare. E’ il “giocare insieme” (etimologicamente è da cum e ludere) entro le regole di una convivenza produttiva. Date queste
premesse si capisce allora come le ludopatie possano considerarsi alla stregua
di “colludopatie”, ossia modi di rompere assetti relazionali che si reggono
sull’assunto che “va tutto bene, a meno che…”. Il gioco d’azzardo patologico
porta con sé la perdita della capacità di condividere le risorse della
famiglia. I propri congiunti non sono più, agli occhi del giocatore, persone
con cui scambiare fiducia ed emozioni. Non ci si premura più di costruire
percorsi e progetti di vita comune. Nella spirale di una spinta al possesso che
genera solo impoverimento, l’altro che ci è vicino diventa colui al quale
sottrarre il tramite per accedere all’ennesima scommessa. Quel tramite è
evidentemente il denaro faticosamente guadagnato con il lavoro. Denaro quale
simbolo della possibilità di rimandare una soddisfazione, di scegliere il cosa,
il come e il quando nell’ottica di realizzare qualcosa con qualcuno. Ecco che allora
l’aspetto più devastante delle dipendenze da gioco assume connotati sociali
difficilmente ignorabili e con conseguenze devastanti.
Le vie, le strade di quartiere della nostra e delle altre città italiane si
riempiono di luccicanti insegne luminose, di pannelli che oscurano gli interni
di sale giochi dove il tempo deve
rimanere immobile. La netta separazione tra il dentro e il fuori è funzionale a
perdere la percezione dello scorrere della vita. Dentro, tra le macchinette
mangiasoldi, le luci e gli “allegri” jingle
musicali cancellano quel che succede fuori. Non importa che siano le 10 del
mattino o le 11 di sera. Tutto deve susseguirsi ciclicamente, come in
un’alienante catena di “(s)montaggio”. Quel che si disfa è la possibilità di scegliersi un
futuro, di configurarlo entro gradi di libertà.
Crisi economica, anomia, mancanza di riferimenti..., uno Stato che da un
lato condanna e dall’altro incentiva la degenerante cultura della scommessa,
senza contare la longa manus della
malavita organizzata, ormai saldamente introdotta nel controllo delle sale da
gioco clandestine.
La cornice in cui si manifesta l’inquietante fenomeno che stiamo
analizzando non lascerebbe speranze.
Eppure è proprio nei momenti di profonda crisi che si può attingere a
risorse motivazionali inattese. Albert Einstein ci ricorda che chi attribuisce
alla crisi i propri fallimenti, finisce per violentare il suo stesso talento,
dando più valore ai problemi che alle soluzioni possibili. La vera crisi, ci
ricorda lo scienziato di Ulma, è la crisi dell’incompetenza.
Incompetenza come senso di impotenza, come pretesa di una routine immutabile cui aderire.
Il Poliambulatorio Iris (via dei Castani 236 - Roma), attraverso il servizio di psicologia che chi
scrive organizza nel contesto, si propone di intercettare e di trattare le
domande di aiuto, in primis quelle provenienti dalle famiglie di persone
ludopatiche. L’idea è quella di istituire un gruppo per discuterne insieme, per
sentirsi meno soli, per attivare possibilità di cambiamento entro una rete
sociale che fornisca anche riferimenti giuridici (l’ipotesi di interdizione,
per esempio, nei confronti di un congiunto che stia causando dissesti
economici) [5], informazioni
sui servizi territoriali, strumenti per cominciare ad uscirne. Perché è vero
che non si guarisce dalla ludopatia senza una domanda di cura, ma qualcosa per
ricominciare a vivere si può fare. A partire da chi, una domanda d’intervento,
ce l’ha.
Bibliografia
Carli R. & Paniccia R.M. (2003), Analisi
della domanda. Teoria e tecnica
dell’intervento in psicologia clinica. Bologna: il Mulino.
Foucault M. (1974), Gli Anormali,
Milano: Feltrinelli, 2000
Foucault M. (1963), Nascita della
clinica, Torino: Einaudi, 1969
Freud S. (1920), Al di là del
principio del piacere, Torino: Bollati Boringhieri, 1977.
[1] Per medicalizzazione si intende un
processo di sconfinamento da parte di una scienza, la medicina, che va al di là
dei suoi limiti: non più solo arte di guarigione del singolo o
sistematizzazione di conoscenze utili per affrontare la malattia dell’individuo,
bensì sviluppo pervasivo di saperi e di pratiche che a partire dal XVIII secolo
incomincia ad applicarsi a problemi collettivi, storicamente non considerati di
natura medica, muovendosi in direzione di una tutela su larga scala della
salute del corpo sociale. Per approfondimenti si consulti Foucault: “Nascita
della clinica” (1969); Gli Anormali (1999).
[2] Freud S. (1920), Al di là del
principio del piacere, Torino: Bollati Boringhieri, 1977.
[3] Carli R. & Paniccia R.M. (2003), Analisi della domanda. Teoria e
tecnica dell’intervento in psicologia clinica. Bologna: il Mulino.
[4] Ibidem.
[5] Non sembri un’ipotesi cinica, perché spesso è proprio l’iniziare a fare i
conti con i vincoli della realtà ad innescare una richiesta di reversibilità e
quindi di cambiamento da parte di persone ludopatiche.
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mercoledì 20 marzo 2013
Malattia mentale: come occuparsene?
http://cromatismiemozionali.blogspot.it/2012/01/cronicita-etimo-storia-e-modello-medico.html
In questo vecchio post (link sopra) chi scrive gettava le basi di una riflessione sul rapporto tra cronicità e Servizi di salute mentale. Si ipotizzava che la cronicità fosse il fallimento dell'attesa di un esito. Quello di guarigione. Con tali premesse quali interventi psicologici alternativi si possono pensare? I Servizi territoriali, le agenzie non direttamente deputate a trattare la malattia mentale (scuole, organizzazioni produttive, ecc.), i luoghi di convivenza (quartieri, bar, palestre...) continuano a confrontarsi criticamente con questi problemi.
Un gruppo di psicologi, tra i quali il sottoscritto, sta provando a rispondere alla domanda di cui sopra a partire da significative esperienze formative e professionali.
La Rivista di Psicologia clinica (on line) ha pubblicato i resoconti di questi psicologi, scritti per un recente convegno (giugno 2012) su questa complessa tematica.
Questi i link. Buona lettura.
http://www.rivistadipsicologiaclinica.it/italiano/numero2_12/pdf/Cafaro_intro.pdf
http://www.rivistadipsicologiaclinica.it/italiano/numero2_12/pdf/Bonavita_etal.pdf
http://www.rivistadipsicologiaclinica.it/italiano/numero2_12/pdf/Giacchetti_etal.pdf
http://www.rivistadipsicologiaclinica.it/italiano/numero2_12/pdf/Carbone_etal.pdf
martedì 15 gennaio 2013
L'occasione di un sogno...
La "povertà onirica" pare caratterizzare questo momento storico e sociale.
Pochezza onirica quale assenza di desiderio nel sogno lucido della veglia. Esiguità che alcuni psicologi riscontrano
durante le sedute e che può essere letta, simmetricamente, come sintomo di
un’incapacità, da parte nostra, di invitare qualcuno a raccontare i propri sogni.
Concretizzazione a discapito del
simbolico, cui andiamo incontro, inevitabilmente, quando resocontiamo.
Guarda caso una paziente che
incontro da circa due anni ha provato a comunicarmi qualcosa di importante,
recentemente. L’ha fatto attraverso il racconto di un sogno.
Lo riporto quindi per come mi è stato raccontato in seduta, insieme agli scambi verbali e alle costruzioni di senso
susseguenti. Inizio da una cospicua introduzione, per condividere il processo
psicoterapeutico e il momento relazionale nel quale viene a prodursi il sogno
stesso. Prima di addentrarmi, due precisazioni:
1 - considero il sogno
prospetticamente, un’occasione per riconsiderare quanto successo tra la
paziente e me, per connetterlo al presente e al futuro che si tratteggiano nell'analizzarlo
e nel condividerlo;
2 - non esiste alcuna interpretazione univoca di una produzione onirica, se ne sceglie
una (tra le infinite), per l’appunto, che serva a qualcosa.
Una rilettura del “prima” a partire da una produzione onirica
recente
Si tratta di una donna di 43 anni
che ha iniziato la consulenza con chi scrive nel 2010, seppure con un periodo
di interruzione risalente a circa un anno fa. Si era rivolta a me privatamente,
su invio di un’altra persona con cui avevo terminato il lavoro. Maria, questo
il nome (fittizio) della paziente in questione, si sentiva fortemente depressa, in una
situazione di impasse e insoddisfazione sociale e lavorativa. All'epoca viveva
con un uomo molto più in là negli anni rispetto alla sua età, con il quale, tra
l’altro, non aveva una vita sessuale soddisfacente. Ma il punto era un altro.
Si lasciava vivere in un rapporto di accondiscendenza apparente, mentre con
un’altra parte di sé cominciava a riconoscere l’angustia connessa alle pretese
e ai reiterati controlli di quest’uomo. Avvertiva cioè il peso dell’essere una
donna “di rappresentanza”, dell’obbligarsi a seguirlo nelle occasioni mondane
ed elitarie, entro la ristretta cerchia della sua fiera appartenenza massonica.
Si era lasciata andare a un consumo
di alcol sempre più frequente, forse per alleviare il disagio del sentirsi
costantemente fuori luogo, per apparire più spigliata, diluendo lo sconforto
del vedersi come l’ombra “profana” del suo esclusivista compagno. Sembrava aver
perso di vista una sua identità. Era stata sposata con un uomo che forse non aveva amato mai, per dirla
parafrasando un noto cantautore.
Dopo la fine del matrimonio aveva
smesso di lavorare (si occupava, con il titolare-marito, di uno Studio
commercialistico), oscillando tra l’essere una madre poco attenta (parole sue) e la ricerca di qualcosa che le sembrava
costantemente impalpabile. Figlia unica di un padre a sua volta alcolista e (prevalentemente) inoccupato e di una madre che talvolta esecrava per la sua
incrollabile oblatività, pareva ricalcare nelle sue relazioni, la
reciprocazione del cinismo abbandonico e della sacrificalità più indiscutibile.
Vittima e carnefice al contempo. Quando prevaleva l’identificazione con la
madre, si incastrava in relazioni con uomini persecutori, distanti e
irraggiungibili, per poi razionalizzare la tendenza a resistere stoicamente.
Giungeva quindi a disinvestire ogni aspetto della sua esistenza, demotivandosi
per poi ritirarsi sprezzantemente dai rapporti, come faceva suo padre quando
era preso dapprima da una malinconia autistica e in seguito dai fantasmi dei
suoi stordimenti rabbiosi.
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