lunedì 5 gennaio 2015

Lavorare con la disabilità

Quello che pubblico è il resoconto finale di una consulenza. Si tratta di un corso di formazione che (insieme con uno staff di colleghi) stiamo portando avanti con una importante Onlus che si occupa di disabilità.
Credo contenga alcune riflessioni che è possibile allargare a buona parte dei contesti che si occupano di persone disabili.
Vuole essere anche la testimonianza del lavoro di operatori appassionati e competenti; un'attestazione in controtendenza rispetto alle recente reputazione di tutto il cosiddetto "Terzo settore", area del privato sociale che ha subito critiche violente e indiscriminate dopo l'inchiesta "Mafia Capitale".


Ci sono due parole, due modi di dar nome a costrutti variabili che metto in rapporto al momento storico e contingente di A. Onlus e al nostro lavoro di consulenza con voi. Queste due parole sono “verità” e “solitudine”.

In uno splendido romanzo degli anni 60 del secolo scorso, “Sopra eroi e tombe”, lo scrittore argentino Ernesto Sàbato si interroga più volte, attraverso i protagonisti del libro, sul senso e sulle conseguenze inattese della verità. Dire il vero può essere distruttivo, asserisce Sàbato, perché quando crediamo di avvicinarci alla verità sulla realtà ultima dei mondi con cui entriamo in contatto, siamo spesso mossi da emozioni che ci spingono ad agire piuttosto che a pensare. Quando in preda alla rabbia diciamo qualcosa di duro e spigoloso nei confronti di qualcuno, quella è una verità? Per chi si esprime sdegnosamente lo è in quello specifico momento e in quella data situazione, forse; ma noi restiamo sempre uguali a noi stessi? Quel che è vero prima lo sentiamo altrettanto autentico a distanza di giorni o di anni? La nostra identità, ciò in cui crediamo, le più intime convinzioni sono tutti aspetti dotati di una profonda discontinuità. Ciò che reputiamo certo è in realtà variabile, sfumato e contestuale.



Ripenso alla paura di darsi riscontri che abbiamo incontrato durante il lavoro con i gruppi di quest'anno e di quello passato. Una paura che sintomaticamente produceva silenzi, come a voler nascondere quella distruttività cui si faceva riferimento nel romanzo esistenzialista di Sàbato. Chi suo malgrado si trova ridotto ad oggetto della collera, esprime ulteriormente lo scrittore, può pensare che la presunta verità dell'altro nei propri confronti sia definitiva. E' questa, probabilmente, la deriva più triste per coloro i quali scelgono una passiva vittimizzazione.
Ma se è vero che per subire la veemente stizza di qualcuno serve quantomeno credere che il potere sia solo quello che consente la violenza dell'uno sull'altro, è altrettanto vero che il nostro modo di organizzare i gruppi di lavoro con tutti gli operatori dei Centri ha cercato di valorizzare lo scambio al di là delle differenze di ruolo e di gerarchia. C'è stata, per un lungo periodo, una forte resistenza a esprimersi da parte di molti. Io credo che la difficoltà a parlare del proprio lavoro, soprattutto in rapporto a quanto ognuno degli operatori vive e agisce professionalmente con gli utenti, sia figlia di un'altra difficoltà importante: quella di rendere parlabile l'affetto nei loro confronti. Affetto che ognuno degli operatori, individualmente, privatamente, entro la propria solitudine, sente nei confronti di utenti che segue a volte da anni, se non da lustri.


Prendo ancora spunto dal romanzo di Ernesto Sàbato per sviluppare il concetto. C'è un passaggio narrativo nel quale, Martìn, uno dei personaggi chiave, entra nella boutique dove lavora Alejandra, la ragazza con cui ha una tormentata relazione. Passa dal retro per non entrare in quel “davanti” che significherebbe invadere il consueto processo di lavoro, fatto di prove, abiti, discorsi futili e vanità. Nel retro vede seduto, assorto nei suoi pensieri, un uomo che conosce, un giornalista recensore di opere teatrali, a sua volta frequentatore della boutique perché amico di Alejandra. Lo vede e si blocca, perché è come se lo guardasse per la prima volta. Non è il solito, sarcastico e pungente seduttore. Ha uno sguardo diverso, lo sguardo nudo di chi sa di essere solo. A Martìn torna in mente il discorso, condiviso con un'altra persona, sulla verità. Qual è la verità sull'uomo giornalista? Gli sembra di coglierla in quel momento, mentre lo osserva a sua insaputa. Privo delle consuete maschere che ognuno di noi in un modo o nell'altro indossa nelle varie situazioni di vita sociale, il giornalista suscita il pudore di Martìn, il quale vorrebbe rinunciare ad irrompere in quella scena perturbante e stranamente malinconica. Quando Martìn decide di farsi vedere tutto cambia repentinamente e il giornalista torna a recitare la sua stereotipale identità pubblica.
Non so se è chiaro: è molto difficile condividere quella parte della nostra identità che reputiamo profondamente nostra, privata e inviolabile. Se c'è una particolarità nell'ambito di A. Onlus è che dentro questa organizzazione quella solitudine priva di orpelli fasulli gli operatori si trovano a viverla, quotidianamente, giorno dopo giorno, con i cosiddetti “ragazzi”. E si badi bene: non è una parola così scontatamente familiare e familista come potrebbe pensare chi, come noi, viene da fuori. Non è solo un modo di appiattire differenze di età, di genere, di modi di essere degli utenti; bensì è una parola che viene sempre ammantata, da chi la pronuncia, di un affetto profondo e bonario. Tuttavia questa è una consapevolezza che noi ci siamo potuti costruire solo quando siamo venuti a visitare i tre Centri; quando vi abbiamo visto nella dimensione operativa del vostro lavoro. Personalmente, in quell'occasione, penso di aver provato quella strana quota di pudore di cui scriveva Ernesto Sabato. Il pudore che si prova quando ci si trova innanzi a una verità. Mai definitiva e mai perfettamente inquadrabile, alla stregua della realtà, eppure sì, avvicinabile. Le emozioni, se pensate, possono avvicinarci a una verità contingente.


Qualcosa di importante è cambiato quando nei gruppi di quest'anno si è smesso di dare per buono quell'affetto che gli operatori hanno lungamente considerato privato, inviolabile, indicibile, il cui pallido riflesso noi avevamo cominciato a cogliere tramite la parola “ragazzi”. Perché affetto significa anche poter dire di un utente: con lui ho delle difficoltà. Oppure: sento che non sto riuscendo ad aiutarlo, ma mi piacerebbe sapere voi che ne pensate. Cioè qualcosa è cambiato quando si è abbandonata, finalmente, la maschera dei ruoli cui aggrapparsi, spesso difensivamente. Si è cominciata a scoprire la competenza di varie figure professionali che discutono, che si mettono in gioco, che sostengono l'idea che quell'utente non è mio, tuo, dello staff psico-medico, del direttore sanitario, dell'OSS o dell'educatore, ma è qualcuno che ha un rapporto con l'organizzazione A., perché esiste una domanda di presa in carico entro le varie declinazioni del curare e del prendersi cura. In tal senso, anche a proposito della domanda delle famiglie degli utenti, si tratta di un discorso che abbiamo solo intrapreso tangenzialmente, sino ad oggi. Meriterebbe un ulteriore approfondimento.


Mi accorgo, scrivendo questo resoconto, che sto desiderando di continuare a lavorare con voi. Non so se sarà possibile. Così come non so e non sappiamo se quello che siamo riusciti a costruire insieme abbia un seguito indipendente dalla consulenza. Sarebbe bello e importante che dopo questi tre anni voi riusciste a organizzare riunioni, momenti di sospensione dalla azioni consuete dei Centri, spazi istituiti in cui sia possibile condividere esperienze di lavoro, per comprenderle ed elaborarle in vista del futuro: quello di un'organizzazione che è già in grado di proporre servizi di eccellenza. Ci avete dato testimonianza che qualcosa già si sta muovendo. Questo significherebbe anche che, seppur parzialmente, abbiamo lasciato una traccia; una piccola eredità simbolica su cui erigere ulteriori scenari. Significherebbe che abbiamo lavorato per realizzare qualcosa di vero, perché troppe volte, lo sappiamo bene, la formazione è solo un falso adempimento prescritto. Significherebbe, infine, e ci piace pensarlo, che il valore della vostra solitudine sarete in grado di utilizzarlo con gli altri.


Con grande affetto,
Fabrizio Casuccio