Il termine “ludopatia” (da lùdus, gioco e da pathos,
malattia) si riferisce alla dipendenza da gioco d’azzardo. Si tratta, da un
punto di vista terminologico, di un neologismo, coniato recentemente nell’ottica di medicalizzare [1] uno dei più preoccupanti e recenti fenomeni psico-sociali del nostro tempo.
In realtà la nosografia psichiatrica si è da tempo espressa circa le
cosiddette dipendenze patologiche. Le classificazioni, tuttavia, continuano a
proliferare in linea con il trend attuale dell’abbassamento delle soglie
problematiche. Oggi l’etichetta “dipendenze” non include soltanto l’abuso di sostanze
psicoattive, ma arriva a inglobare tutta una serie di comportamenti “morbosi”
che rientrano nello spettro dei “disturbi del controllo degli impulsi”. Il
comune denominatore di tali disturbi consisterebbe nell'incapacità di resistere
a un impulso, a un bisogno impellente, alla tentazione di agire pericolosamente,
sentendosi mossi da una eccitante tensione che persiste sino alla scarica
dell'atto consumatorio. La gratificazione e il sollievo del momento, tuttavia,
sfumano rapidamente, lasciando il soggetto in uno stato di rimorso,
auto-riprovazione, senso di colpa.
Le dipendenze si allargano a macchia d’olio. I rapporti con Internet, con
lo shopping (compulsivo), con il cellulare, con il sesso, con il lavoro e, per
l’appunto, con il gioco d’azzardo, vanno ad alimentare questa tendenza a
“costruire” nuove malattie.
Il punto è: si è in grado di curarle? Evidentemente no, perché il modello
psichiatrico non è equiparabile al modello medico. Non si guarisce
dall'acquistare troppi vestiti o dallo sperperare denaro in gratta e vinci.
Nemmeno con gli psico-farmaci.
Che fare allora, considerando che chi vive questi problemi non sembra avere
alcuna intenzione di curarsi? E’ piuttosto raro che ci si rivolga a
professionisti psicologi con una domanda d’aiuto diretta. Già nel 1920 Freud
sosteneva che “nella vita psichica esiste davvero una coazione a ripetere la
quale si afferma anche a prescindere dal principio di piacere” [2].
Piacere e auto-distruzione si intrecciano sino al parossismo nelle dinamiche
del gioco d’azzardo patologico. Così si può andare avanti per anni, perpetrando
quello che diventa un rituale di evocazione magica e di sfida, di seduzione e
rabbia persecutoria nei confronti della “dea bendata”, senza rendersi conto
della gravità della situazione. E’ solo quando si tocca il fondo, quando si
arriva ad attingere di nascosto al denaro dei familiari, quando si distrugge
l’affetto e la fiducia dei propri cari che qualcuno prova a dire basta. E quel
qualcuno, comunque, non è la persona “ludopatica” (è una rara eventualità). Si
tratta, per l’appunto, di famiglie esasperate dall’impotenza (nel non chiedere
aiuto) e dall’onnipotenza (nel non smettere mai di giocare, sino a negare i
dati di una realtà sempre più disperante) di chi manda in rovina la convivenza.
Già, perché è di questo che si tratta. Le “ludopatie” distruggono la
capacità di convivere entro sistemi sociali, quali la famiglia, fondati sulla
fiducia e sulla reciprocità nel condividere. Lo psicoanalista e psicosociologo
Renzo Carli definisce “collusione” la simbolizzazione affettiva del contesto da
parte di chi a quel contesto partecipa [3].
La collusione, quindi, è un processo di socializzazione
delle emozioni, che proviene dalla condivisione emozionale di situazioni
contestuali. La collusione, in altri termini, è il tramite emozionale che fonda
e organizza la costruzione delle relazioni sociali, grazie alle emozioni
condivise (pag. 11) [4].
Colludere, fuori dall’aspetto illecito e clandestino che il senso comune
gli attribuisce, significa, per esempio, simbolizzare reciprocamente come
“amico” il contesto familiare. E’ il “giocare insieme” (etimologicamente è da cum e ludere) entro le regole di una convivenza produttiva. Date queste
premesse si capisce allora come le ludopatie possano considerarsi alla stregua
di “colludopatie”, ossia modi di rompere assetti relazionali che si reggono
sull’assunto che “va tutto bene, a meno che…”. Il gioco d’azzardo patologico
porta con sé la perdita della capacità di condividere le risorse della
famiglia. I propri congiunti non sono più, agli occhi del giocatore, persone
con cui scambiare fiducia ed emozioni. Non ci si premura più di costruire
percorsi e progetti di vita comune. Nella spirale di una spinta al possesso che
genera solo impoverimento, l’altro che ci è vicino diventa colui al quale
sottrarre il tramite per accedere all’ennesima scommessa. Quel tramite è
evidentemente il denaro faticosamente guadagnato con il lavoro. Denaro quale
simbolo della possibilità di rimandare una soddisfazione, di scegliere il cosa,
il come e il quando nell’ottica di realizzare qualcosa con qualcuno. Ecco che allora
l’aspetto più devastante delle dipendenze da gioco assume connotati sociali
difficilmente ignorabili e con conseguenze devastanti.
Le vie, le strade di quartiere della nostra e delle altre città italiane si
riempiono di luccicanti insegne luminose, di pannelli che oscurano gli interni
di sale giochi dove il tempo deve
rimanere immobile. La netta separazione tra il dentro e il fuori è funzionale a
perdere la percezione dello scorrere della vita. Dentro, tra le macchinette
mangiasoldi, le luci e gli “allegri” jingle
musicali cancellano quel che succede fuori. Non importa che siano le 10 del
mattino o le 11 di sera. Tutto deve susseguirsi ciclicamente, come in
un’alienante catena di “(s)montaggio”. Quel che si disfa è la possibilità di scegliersi un
futuro, di configurarlo entro gradi di libertà.
Crisi economica, anomia, mancanza di riferimenti..., uno Stato che da un
lato condanna e dall’altro incentiva la degenerante cultura della scommessa,
senza contare la longa manus della
malavita organizzata, ormai saldamente introdotta nel controllo delle sale da
gioco clandestine.
La cornice in cui si manifesta l’inquietante fenomeno che stiamo
analizzando non lascerebbe speranze.
Eppure è proprio nei momenti di profonda crisi che si può attingere a
risorse motivazionali inattese. Albert Einstein ci ricorda che chi attribuisce
alla crisi i propri fallimenti, finisce per violentare il suo stesso talento,
dando più valore ai problemi che alle soluzioni possibili. La vera crisi, ci
ricorda lo scienziato di Ulma, è la crisi dell’incompetenza.
Incompetenza come senso di impotenza, come pretesa di una routine immutabile cui aderire.
Il Poliambulatorio Iris (via dei Castani 236 - Roma), attraverso il servizio di psicologia che chi
scrive organizza nel contesto, si propone di intercettare e di trattare le
domande di aiuto, in primis quelle provenienti dalle famiglie di persone
ludopatiche. L’idea è quella di istituire un gruppo per discuterne insieme, per
sentirsi meno soli, per attivare possibilità di cambiamento entro una rete
sociale che fornisca anche riferimenti giuridici (l’ipotesi di interdizione,
per esempio, nei confronti di un congiunto che stia causando dissesti
economici) [5], informazioni
sui servizi territoriali, strumenti per cominciare ad uscirne. Perché è vero
che non si guarisce dalla ludopatia senza una domanda di cura, ma qualcosa per
ricominciare a vivere si può fare. A partire da chi, una domanda d’intervento,
ce l’ha.
Bibliografia
Carli R. & Paniccia R.M. (2003), Analisi
della domanda. Teoria e tecnica
dell’intervento in psicologia clinica. Bologna: il Mulino.
Foucault M. (1974), Gli Anormali,
Milano: Feltrinelli, 2000
Foucault M. (1963), Nascita della
clinica, Torino: Einaudi, 1969
Freud S. (1920), Al di là del
principio del piacere, Torino: Bollati Boringhieri, 1977.
[1] Per medicalizzazione si intende un
processo di sconfinamento da parte di una scienza, la medicina, che va al di là
dei suoi limiti: non più solo arte di guarigione del singolo o
sistematizzazione di conoscenze utili per affrontare la malattia dell’individuo,
bensì sviluppo pervasivo di saperi e di pratiche che a partire dal XVIII secolo
incomincia ad applicarsi a problemi collettivi, storicamente non considerati di
natura medica, muovendosi in direzione di una tutela su larga scala della
salute del corpo sociale. Per approfondimenti si consulti Foucault: “Nascita
della clinica” (1969); Gli Anormali (1999).
[2] Freud S. (1920), Al di là del
principio del piacere, Torino: Bollati Boringhieri, 1977.
[3] Carli R. & Paniccia R.M. (2003), Analisi della domanda. Teoria e
tecnica dell’intervento in psicologia clinica. Bologna: il Mulino.
[4] Ibidem.
[5] Non sembri un’ipotesi cinica, perché spesso è proprio l’iniziare a fare i
conti con i vincoli della realtà ad innescare una richiesta di reversibilità e
quindi di cambiamento da parte di persone ludopatiche.