venerdì 28 dicembre 2012

Un fulmine a ciel sereno

R. entra nella stanza con il respiro affannoso, con gesti lenti chiude la porta alla sue spalle, mentre la accolgo e la invito a sedersi. Altrettanto fiaccamente si toglie il soprabito, rallentata dall'obesità e da una sorta di gravosa, fantasmatica ineluttabilità che leggo nei suoi movimenti.
E’ vistosamente trasandata e dimostra 15 anni in più di quelli che ha realmente (38).
Prima ancora che proferisca parola ho la sensazione di avere di fronte il prototipo della perfetta donna depressa.
Le dico che abbiamo un’ora per lavorare, invitandola a cominciare dalla prima cosa che le passa per la mente.
Mi dice che circa due settimane prima del nostro attuale incontro il marito le ha detto di non amarla più, di non provare più nulla nei suoi confronti. Ricorda che era il due gennaio del corrente anno e sottolinea la sensazione di violenza di quella comunicazione, entro un crescendo di accuse nei suoi riguardi, al termine del quale l’uomo esce di casa sbattendo la porta. Mi colpisce la frase con cui connota il vissuto di quel momento: è stato come un fulmine a ciel sereno.
Le chiedo quindi che fine abbia fatto il marito, se da allora si siano parlati nuovamente o quantomeno rivisti, al che R. chiarisce che l’uomo ha fatto ritorno alcune ore più tardi, senza rivolgerle la parola.
Riflettiamo insieme sui nessi tra quello che sembra un agìto provocatorio di adolescenziale memoria (l’uscire furiosamente di casa dopo una litigata in famiglia per poi tornare facendo l’offeso) ed il “fulmine a ciel sereno”. Ci chiediamo se quella serenità non sia un modo per semplificare un assetto di rapporto specifico tra loro, più prossimo al far finta che tutto andasse bene. Di solito chi provoca ha intenzione di sovvertire il vissuto di essere schiacciato, di subire una qualche forma di potere. Di lì quel modo violento di rovesciare la situazione a proprio vantaggio.
In effetti R. si ritrova nella lettura che costruiamo, mi dice che ha provato a cambiare suo marito, (lo ripeterà più volte nel corso della seduta) perché a suo dire troppo immaturo, a volte irresponsabile e propenso a prendere la vita con leggerezza e sarcasmo. E si accorge di quanto poco regga la questione del fulmine a ciel sereno quando le viene alla mente che più volte in passato, lui le abbia fatto notare la propria trascuratezza, la scarsa attenzione che R., da molto tempo, dedica al suo aspetto.
Ma è possibile cambiare qualcuno, plasmarlo a propria immagine e somiglianza o secondo un modello di idealità, senza innescare nell'altro la sensazione di essere manipolati, e quindi aggressivamente infantilizzati?
Le chiedo quindi cos'è che le piacesse di suo marito al tempo in cui si conobbero e R. fatica non poco nel riconoscere che ne apprezzava proprio ciò che attualmente vorrebbe correggere. In sintesi, il suo essere sia simpatico che canaglia. S., questo il nome dell’uomo, lavora come guardia giurata presso un ufficio postale, mentre lei è addetta in un supermercato.
Quando approfondiamo la loro attuale modalità di convivenza, a valle del “fulminante” episodio, sento il collegamento tra quello che mi racconta ed il suo modo di presentarsi in seduta, ammantata di una sofferenza silente ed al contempo inequivocabilmente espressa da una sciatteria ed un’incuria pesantissime. Dice che a stento si parlano ma che lui le appare irremovibile nel voler dar seguito a quella rottura. Ne intuisce l’intenzione di andarsene definitivamente, da solo, con tutta probabilità nella nuova casa dove inizialmente erano entrambi decisi a trasferirsi. Non ci sono dialoghi, confronti tra loro, se non la ormai consueta modalità del marito di aggredire verbalmente R., la quale da qualche tempo vomita ripetutamente in bagno con la presenza dell’uomo in casa, entro quello che leggo come un disperato gesto colpevolizzante.

giovedì 6 settembre 2012

Roberto

Incrocio Roberto più volte nel via vai di un albergo di Marciana Marina, durante le mie vacanze all'isola d'Elba. La facies hippocratica gli conferisce una mimica quasi disfatta nel complesso, eppure nei suoi occhi brilla qualcosa. Si fa notare per le espressioni sopra le righe (bestemmia come un camionista toscano alle prese con una gomma forata...), per le frasi ridondanti, perchè parla due/tre toni sopra mentre chiede continuamente a sua madre: mamma, ma torna??! Torna, mamma?? Oh ma sale??? Ma se poi non torna??? Madon(xx) ca(xx) non scende!!!!
Ha più o meno trent'anni. E' in albergo con gli anziani, pazienti genitori. Presumo sia affetto da un disturbo dello spettro autistico, forse la sindrome di Asperger.
Suscita simpatia in tutti, Roberto, me compreso; ma ancora non ho ben capito chi o cosa debba tornare-scendere-salire. Forse suo padre, penso tra me e me.
Una mattina, durante la colazione all'aperto, molla un peto talmente plateale da sembrare una pernacchia. La voluta inclinazione del busto e la bocca chiusa sconfermano la teoria della burla... Ma quella "sconveniente sottolineatura", provenendo da lui, non può che suscitare ilarità. Per poco non mi strozzo con un cornetto, mentre il nostro continua a mangiare con la nonchalance di un critico gastronomico. Poi si alza di scatto e corre verso l'interno dell'albergo. Poco dopo lo ritrovo davanti al cunicolo trasparente dell'ascensore, mentre con occhi supplicanti guarda su. Prendo tempo e senza fissarlo faccio qualche passo lento, su e giù per l'atrio. Vorrei capirci di più, sono curioso. Non è suo padre che aspetta. E' la cabina dell'ascensore. Qualcuno esce tra la totale indifferenza di Roberto. L'oggetto della sua amorevole attenzione non è il contenuto (umano), bensì il contenitore.
No, non ci entra mai. Si limita a premere il tasto che lo tiene al piano. Quando le porte si richiudono in automatico non sembra angosciato, purchè l'ascensore resti lì. Quando, di contro, sale il giovane si dispera, consolandosi e gioendo solo al momento in cui la cabina "torna da lui".
Ha preteso, per la cena, un tavolo che gli consentisse di controllare con lo sguardo i movimenti dell'adorato "saliscendi".
Ogni volta che lo incontro (ciao Roberto! Bello l'ascensore!! Sì, bello. Ma scende? Sì però torna, non preoccuparti...), di fronte al cunicolo, in spasmodica attesa o in adorazione, non posso non pensare al gioco del rocchetto descritto da Freud. Il padre della psicoanalisi aveva notato come un suo nipotino di 18 mesi si intrattenesse con questo piccolo strumento ludico lanciandolo sotto il letto, facendolo quindi sparire per poi recuperarlo tramite il filo cui era attaccato. Si trattava della messa in atto di una sorta di drammatizzazione, di una coazione a ripetere un'esperienza angosciante di separazione (con la madre, nella fattispecie), "riparata" dal potere magico di far tornare attivamente l'oggetto.
Così associativamente mi viene in mente la "femminilità" simbolica del contenitore, la cabina dell'ascensore quale "parentema" o "erotema", per dirla con Franco Fornari, connotato al femminile. Che Roberto abbia vissuto una separazione dolorosa di recente?
Qualche sera dopo, intrattenendomi con Benedetta, una delle proprietarie dell'albergo, le chiedo se Roberto abbia una sorella...una sorella da cui si sia separato, suo malgrado.
La domanda sembra retorica a Benedetta, nel senso che pensa io sappia. Ti ricordi Fabrizio? La sorella era qui con loro, poi ha litigato con degli amici e se n'è andata in gommone a Piombino.
No, Benedetta, non lo sapevo...

Al di là delle congetture indiziarie e interpretative, colpisce, di questa vicenda, la benevolenza e la capacità di molte persone di entrare in rapporto con Roberto. Saper convivere con la malattia mentale è indice di civiltà. Ci sono culture locali fondate sulla diffidenza, sulla coesione difensiva, sul vivere la diversità quale minaccia. Ce ne sono altre, come in questo piccolo ma splendido paesino dell'Elba, dove l'abitudine a riconoscere l'estraneità quale occasione di arricchimento, genera storie di compassione e comprensione, di adattabilità e apertura all'esperienza.

giovedì 2 agosto 2012

To bid you farewell...

...ma sarebbe meglio un semplice arrivederci.
Finalmente si parte.

E' qui che andrò:


È in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino li creo; se li creo esistono; se esistono li vedo. […] La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo.

Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine


Porterò qualche libro e un pò di musica. Fanculo agli ipod. Lettore mp3 (Five Finger Death Punch - Remember Everything; Rush - The Garden; Ne Obliviscaris - Forget Not; Anathema - Untouchable 1&2; Killing Joke - In Cythera; Dismember - Dreaming in Red; The Cure - Disintegration; Testament - True American Hate; Lunar Aurora - Gesterwoid...).

Un sentito ringraziamento a quei quattro gatti che mi leggono.
Enjoy:





mercoledì 1 agosto 2012

Castelli di sabbia per due

Che sia l'amore tutto ciò che esiste
È ciò che noi sappiamo dell'amore;
E può bastare che il suo peso sia
Uguale al solco che lascia nel cuore.

Così Emily Dickinson sull'amore romantico, in questi splendidi, "insaturi", polisemici versi. Inconoscibilità esterna (che l'amore rappresenti la totalità, l'infinito, è "tutto" ciò che ne sappiamo) e peso interiore (il solco che lascia nel cuore, nell'àmbito del nostro mondo interno). Un peso non commensurabile da una bilancia, insignificante sul piano della realtà ostensibile, eppure enorme per come lo sentiamo e viviamo dentro di noi quando, per esempio, soffriamo per amore. Di contro, si pensi all'insostenibile leggerezza dell'essere, al volo pindarico che ci spinge ad andare verso qualcuno che ci dà gioia, ricambiando i nostri sentimenti. La Dickinson sembra evocare, in altri termini, l'estrema modalità di sostituire la realtà esterna con la propria realtà psichica, coagulando "un pensiero non ancora pensato" da Freud, circa una delle caratteristiche del modo di essere inconscio della mente. Quando amiamo, scriveva Matte Blanco, l'oggetto del nostro desiderio possiede in grado infinito le innumerevoli caratteristiche della desiderabilità. Lui o lei racchiudono la gruppalità, l'insieme di tutto quello che significhiamo quale amore: dallo struggimento alla beatitudine, contemplando lo spettro che va dal codice materno a quello paterno, dal perdere i propri confini al ricongiungersi nell'atto sessuale. In lui o in lei si condensano e si irradiano tutti i lui e le lei di cui siamo stati innamorati. Sostituiamo "la realtà" di chi amiamo con l'emanazione di un sentire senza spazio e senza tempo.
L'amore è una follia, quindi, e si dispiega lungo un continuum di emozioni che ci sembrano incontenibili. Ma l'amore è una follia di cui possiamo prenderci cura se partiamo dal presupposto consapevole che non può sussitere al di fuori dell'idealizzazione. Tuttavia una cosa è confrontare un modello di idealità precostituito con colui o colei che incontriamo; altra, ben più difficile cosa è costruire entro un percorso di conoscenza "insatura" l'idealità dell'Altro. E' infatti assai diverso procedere nell'ottica modello/scarto dal modello, rispetto al "conoscersi per condividere" o al "ri-conoscersi per condividere", qualora, nell'ultimo caso, si voglia provare a non darsi per scontati. Ciò può implicare anche il passaggio attraverso gli accomodamenti e le assimilazioni che l'aggressività e la distruttività ci prospettano, nel percorso incerto e difficile di una relazione duratura.

Sul tema dell'amore romantico suggerisco il bellissimo volume del compianto Stephen Mitchell, edito da RaffaelloCortina: L'amore può durare? Il destino dell'amore romantico.



Ne riporto integralmente un paragrafo "chiave", per sviluppare l'accenno al coinvolgimento, alla condivisione e all'incertezza cui facevo riferimento poco più su.

Castelli di sabbia per due

Le riviste popolari che danno consigli alle persone le quali portano avanti stancamente le loro relazioni, offorno molti suggerimenti sulle cose che bisogna fare per migliorarle. Ma sarebbe molto meglio riflettere su quello che si sta già facendo! La spontaneità, come sanno bene le persone che fanno meditazione, non si ottiene con l'azione, ma astenendosi dalle proprie azioni abituali e scoprendo quello che succede. Desiderio e passione non sono frutto della premeditazione, ma fanno la loro comparsa in contesti specifici, e dobbiamo impegnarci molto per costruire contesti in cui il desiderio e la passione abbiano maggiore o minore probabilità di apparire.
E' molto più facile discernere qual è il nostro ruolo nella costruzione dei contesti dei nostri coinvolgimenti che comprendere il ruolo che abbiamo nella costruzione dei contesti che ci permettono di essere spontanei. Tendiamo a pensare di avere un controllo onnipotente sui nostri coinvolgimenti e a esaltare l'aspetto romantico della perdita di controllo nella spontaneità. Costruiamo città, inventiamo i nostri ambienti, a volte come fossimo dèi, e poi romanziamo la natura selvaggia come se (con kayak e scarpe da trekking) potessimo incontrarla incontaminata e intatta. Ma nei fatti d'amore, i coinvolgimenti più profondi e autentici possono essere costruiti e mantenuti solo se si resta consapevoli del cambiamento e della trasformazione che prescindono dal nostro controllo. I coinvolgimenti amorosi romantici non implicano una devozione alla stasi, ma una dedizione a un processo aperto all'incertezza. La passione genuina, a differenza delle sue forme degradate, non è scissa da un profondo desiderio di sicurezza e prevedibilità ma è in una relazione continua e dialettica con questo desiderio. Per conservare vitali e solidi i coinvolgimenti romantici è cruciale che essi non siano così rigidi da eliminare la spontaneità, e che la spontaneità non sia così rigida da precludere il coinvolgimento.
Le proliferanti realtà del mondo esterno in cui abitiamo sono rispecchiate dalle complessità sempre più profonde della nostra autocomprensione. Vogliamo e abbiamo bisogno allo stesso tempo di molte cose diverse: affidabilità e sorpresa, avere e desiderare, conoscere e immaginare. E nelle nostre relazioni più appassionate sentiamo molte cose diverse in rapida successione: desiderio, vulnerabilità, adorazione, tradimento, odio, sofferenza, colpa e forse rinascita. Ma non è semplice determinare se la stabilità che tanto desideriamo sia realtà, illusione o delirio e se la costruzione di questi castelli ci porti fuori dalla vita o generi un mondo in cui si possa essere creata una vita più vibrante e piena di significato.
Per i delicati paradossi dell'amore romantico sono fondamentali il desiderio di stabilità e la certezza che emerge dal desiderio. L'euforia della passione romantica genera dichiarazioni di continuità e sicurezza che, se prese troppo sul serio, possono solo spegnere la libertà e la spontaneità che in un primo momento erano alla base della passione. "Verde e morente mi trattenne il tempo", dice Dylan Thomas nella poesia "Colle delle felci": verde e morente, vivo ma cangiante, in crescita e sul punto di sparire, preso nei ceppi del tempo, ma mentre canto.
L'amore romantico è un castello di sabbia per due. E' una condizione necessaria per la passione, ma non è permanente. I castelli di sabbia per due dell'amore romantico richiedono, a causa della loro natura mutevole, un'opera di continua ricostruzione. L'intimità appassionata richiede una molteplicità di legami che non possono abitare in una sistemazione singola e stabile. L'inevitabilità del continuo mutare, come la marea montante di Nietzsche, spazza via i castelli di sabbia e smentisce le aspirazioni di permanenza.
Non stupisce che il degradarsi dell'amore romantico e la segregazione dei sui diversi aspetti sia tanto comune: i capricci impliciti nella costruzione di questi castelli di sabbia ci separano dalla "terra firma", dal senso di stabilità e prevedibilità di cui abbiamo bisogno, e l'eccitazione dell'amore romantico è rimpiazzata dalle passioni delle soap opera e dai pettegolezzi sulle celebrità. La popolarità dei libri di autoaiuto sulle relazioni esprime il desiderio profondo e diffuso di una specie di Baedeker romantica, di una mappa relazionale che ci aiuti a distinguere la sabbia da materiali di costruzione più resistenti e a risolvere queste tensioni.
Ma l'amore romantico non si coltiva risolvendo le tensioni presenti in una relazione, scoprendo un segreto o cercando in tutti i modi di inventare la novità. Coltivare l'amore romantico in una relazione è un'operazione che ha bisogno di due persone che sono affascinate dai modi in cui, individualmente e insieme, generano forme di vita su cui sperano di poter contare. Implica una tolleranza della fragilità di queste speranze intrecciate di realtà e fantasie, e una comprensione di come, nella ricchezza della nostra vita, le realtà divengano spesso fantasia, e le fantasie divengano spesso realtà.

venerdì 27 luglio 2012

Diagnosi vs Relazione: avere "qualcosa" di fronte o "essere con qualcuno"?

Una collega psicologa che lavora al CSM mi cerca per parlarmi di un utente che vorrebbe affidarmi. Si tratta di un giovane diciannovenne, G., che la psicologa descrive come un caso di disturbo dell’identità sessuale. Ne parla in questi termini perché il giovane, dopo un primo colloquio con la collega, chiede di essere seguito da un uomo, adducendo motivazioni piuttosto vaghe. La psicologa aggiunge che G. ha pensieri confusi sull’oggetto della propria scelta sessuale e che si incista in fantasie deliranti a causa del consumo saltuario di sostanze psicoattive che le ha dichiarato.

Con il sottoscritto si fanno ipotesi sulla componente provocatoria con cui sta organizzando la domanda di consultazione, provocazione che la psicologa coglie emozionalmente (voler sedurre/spaventare con atteggiamenti “devianti”) ma di fronte alla quale sceglie la via della contro-provocazione rassicuratoria, dicendo a G. che anche lei ai tempi dell’adolescenza ha talvolta fumato hashish, con la conseguenza di innescare pensieri paranoici. Ironizza poi con me sul pericolo di “slatentizzare” le psicosi degli psicologi. Ci congediamo con l’ipotesi di non trattare come un dato di fatto questo presunto disturbo dell’identità sessuale (ipotesi poco esplicitata alla collega psicologa), stando piuttosto sul senso simbolico della connessione tra il qui ed ora (la proposta di rapporto di G.) ed il là ed allora (il racconto del problema).
Lavorerò con G. per 8 sedute, per poi concordarne, su richiesta dello stesso G., altre otto.
Non è la scelta dell’identità sessuale il problema del consultante. A G., come lui stesso dirà, piacciono le donne. E’ tuttavia funestato da pensieri ossessivi sull’omosessualità. G. li chiama brutti pensieri, inizialmente non riesce nemmeno a verbalizzarli. Pretende di esserne liberato. Ma questa pretesa passivizzante se stesso (c’è l’attesa medicalizzante di essere curati dal CSM), fa il paio con il contenuto di quelle fantasie ossessive: qualcuno che lo mette nel culo a qualcun altro.
Ma cos’è simbolicamente il “metterlo nel culo”, se non l’azione simmetrica di ingannare/lasciarsi ingannare; vittimizzarsi, essere in balia/violentare sadicamente? Quando recupera la dimensione simbolica, G. riesce ad associare. Sua madre è stata tradita dalla sua migliore amica, perché quest’ultima le ha rubato il marito, mettendosi con il padre di G.
Quando chiedo a G. se abbia mai parlato con i suoi della separazione, dei sui vissuti circa qualcosa che sentiva di aver subìto egli stesso, senza riempirlo di un senso, G. china la testa e piange in silenzio, come se fosse in una posizione masochistica. Quella fantasia disturbante, del resto, ha anche a che vedere con la simbolizzazione sadica del vendicarsi ritorsivamente del padre.

martedì 10 luglio 2012

Musica e poesia

Nel 1994 avevo vent'anni. Ascoltavo rock, come oggi. E talvolta musica cantautorale di livello, purchè spruzzata di wave e velata da tinte fosche.
Era l'alba di un ventennio che al di là di ogni considerazione politica ha avviato, in Italia, un processo di decadenza culturale le cui conseguenze si faranno sentire ancora molto a lungo, negli anni a venire. Sto parlando del berlusconismo, evidentemente.
Curioso che un disco come l'eponimo dei La Crus esca proprio quell'anno zero, forse a rappresentare un ultimo rigurgito di qualità, ricercatezza, intelligenza prima della "memoria del futuro" di una desolazione che avrebbe investito anche molti fenomeni artistici nostrani.

La canzone che vi faccio ascoltare, tra l'altro, sembra l'odierno coro interiore di tante persone, al tempo che viviamo. Un crocevia che interseca aspetti depressivi con una realtà sociale e lavorativa alla deriva.



E dentro le pieghe del mondo c'è un uomo che va
con gli occhi, le gambe e le braccia che trascinano giù
e dietro la curva del cuore sogni tagliati in due
lo sguardo come un lampo che gira e ti chiede perchè

Ma che giorno è?
che rumore fa
un uomo come me?

E dove può andare se il buio lo spacca a metà?
e i nervi scoperti in un grido, no, non rispondono più
e in questo rumore quest'uomo è un soffio che se ne va
è un vento che abita dentro e ti chiede perchè

Ma che giorno è?
che rumore fa
uno come me?

Voglio andare via
via, lontano da qui

lunedì 2 luglio 2012

La donna senz'abito da sposa

Torna da me in consultazione privata, dopo più di un anno di interruzione, una donna di 39 anni che attualmente vive sola. Le modalità di simbolizzare il problema, allora come oggi, sono simili. Alessandra sente di non vivere una relazione d’amore stabile. In ogni rapporto in cui si prova, forse al di là di un ri-conoscimento dell’altro, lei tende invariabilmente a prefigurarsi un esito specifico: il matrimonio.
Proviene da una famiglia del sud Italia immersa in una cultura che fatica a dialogare con alcuni dei cambiamenti del nostro tempo. Tra rabbia ed invidia la nutrita parentela di cui tale famiglia si sente parte, reciproca controlli. In loco o a distanza. I legami di sangue persistono e si rafforzano quasi univocamente per restringere l’orizzonte del visibile sui paragoni: la figlia di tizio si è sposata, caia è sistemata da tempo, sempronia è bella blindata perché guadagna molto ed è prossima a qualche lieto evento definitivo e definitorio di una identità stabile, perenne…mortifera, verrebbe da dire.
In altri termini, per i genitori e la vastitudine moltipicatoria di parenti fantasmatici della mia cliente (cugine, zie, nonne, padri minaccianti e madri luttuose ossessionate dal bianco di un certo abito…), la donna s’ha dda sposà.
In effetti ogni volta che incontra qualcuno, sulla fronte di Alessandra sembra accendersi un’insegna luminosa ad intermittenza: c’è scritto sposami! Non è difficile immaginare che il qualcuno di turno, prima o poi, si defili a gambe levate. Così come viene da pensare che ad Alessandra non freghi nulla di sposarsi sul serio se passa da un uomo all’altro alla stregua di una modella alle prese con i tanti abiti di una sfilata.
La donna, sollecitata spesso a rifletterci, è sospesa tra l’assecondare ed il volgersi reattivamente a tali fantasie, configuranti qualcuno che decide per noi. Comodo, se questo ci esenta dal confrontarci sul senso di una scelta nostra.

lunedì 7 maggio 2012

Ri-apprendere dall’esperienza: una situazione clinica al CSM di Anzio


Il caso che presento riguarda una consulenza psicoterapeutica individuale al Centro di Salute Mentale di Anzio.

1. Il primo colloquio con Corrado

Incontro Corrado, per la prima volta, entro la cornice di un colloquio finalizzato alla somministrazione di un MMPI. Si tratta di un invio “interno” al Servizio. La psichiatra con cui l’uomo è in rapporto da circa un anno, mi chiede un ulteriore accertamento diagnostico, nell’ipotesi condivisa con lo stesso Corrado di certificarne l’inabilità al lavoro. La cartella clinica che consulto prima del colloquio fa riferimento ad una depressione maggiore e ad un disturbo paranoide della personalità.
Ci presentiamo e ci orientiamo su tempi e obiettivi del colloquio. La psichiatra gli ha detto di me, prospettandogli i motivi dell’incontro odierno.
Gli chiedo che idea si sia fatto di questa certificazione. A quali problemi pensa che possa rispondere, ad esempio.
Corrado, barba incolta, tuta da ginnastica, capelli arruffati e aria stropicciata di chi è passato da un letto al CSM senza soluzione di continuità (sono le 14.30), inizia a parlare.
Ha smesso di lavorare circa dieci anni fa, appena passati i quaranta (oggi ne ha 52). Faceva ed in passato ha sempre fatto il rappresentante di tessuti per tendaggi. Per conto di vari committenti-fornitori si recava presso esercizi che a loro volta vendevano al pubblico. Gradualmente, tra enormi difficoltà mi dice, era riuscito ad allacciare rapporti duraturi con alcuni clienti-negozianti. Ma è sempre vissuto in una condizione di semi-indigenza, isolato nella quotidianità e pervaso da un senso di crescente inutilità. Ha quindi stabilito un legame di dipendenza rispetto a quelle esigue relazioni di lavoro, comunque poco produttive sul piano di un ritorno economico.
Nel corso degli anni i problemi sono aumentati. Oggi, aggiunge, nessuno è più disposto ad acquistare tessuti pregiati. La crisi economica, nella sua esperienza, ha radici ben più lontane nel tempo. Ha quindi agìto un lungo addio, continuando a pagare le tasse pur avendo già smesso di lavorare da qualche anno, forse nell’intuizione che la perdita definitiva di quell’unico appiglio di realtà, seppur ormai dissimulato, lo avrebbe privato di un’identità, del sentirsi nella categoria o nella classe, per dirla alla Matte Blanco, degli adulti-lavoratori.
Si ritrova in quel che ipotizziamo, al che provo ad aprire sui nessi tra quell’interruzione (vecchia ormai di dieci anni) e l’immobilismo successivo. Nessun desiderio di ricominciare, di riorganizzarsi, di cambiare lavoro?
Fa resistenza su questo, tende a liquidare la questione, al che mi viene in mente di approfondire il rapporto tra l’importanza del suo lavoro in termini di sopravvivenza/sostentamento e la relativa commistione di piacevolezza/spiacevolezza che mi sembrava gli attribuisse.
Corrado torna a produrre parole, stavolta con una maggiore fluidità ed emozioni meno addomesticate. Fino a quel momento il suo eloquio mi arrivava come qualcosa di meccanico, lento e cantilenante, seppur stilisticamente colto e ricercato.
No, non gli è mai piaciuto fare quel lavoro. Un ambiente, a suo dire, traboccante di opportunisti e colleghi senza scrupoli, pronti a prevaricarti pur mostrandosi amici. Uno troppo buono come lui si è sempre sentito un pesce fuor d’acqua nei confronti di un contesto infestato da squali. Oggi la sua vita si trascina stancamente, non si sente più in grado di reggere l’impegno di un lavoro. La pensione sociale gli consentirebbe quantomeno di sopravvivere.
Nel disordine di un tempo ormai privo di stimoli si limita a subire un significativo sfasamento del ritmo circadiano. Mentre Corrado parla del suo confondere il giorno con la notte, dei lunghi monologhi interiori nel silenzio circostante della solitudine, mi vengono alla mente immagini, citazioni, aforismi che intrecciano simmetricamente il tempo, l’uomo ed il nulla, da Friedrich Nietzsche (Quando guardi a lungo nell’abisso anche l’abisso finisce per guardarti dentro) al Nosferatu cinematografico di Herzog [1].

venerdì 30 marzo 2012

La funzione psicologica nei Servizi di Salute Mentale: il gruppo come strumento di intervento

Il resoconto che pubblico può considerarsi una prima integrazione alle considerazioni più generali espresse in un post precedente, quello relativo al problema della cronicità e della cura della malattia mentale.
C'è spazio per la costruzione di una funzione psicologica nei Servizi di salute mentale? O la psicologia è destinata a rimanere ai margini della cultura psichiatrica dominante?
Dopo 35 anni di territorializzazione, a valle della chiusura dei manicomi (legge Basaglia), la questione rimane insoluta.
Ma forse qualcosa si può fare.
Ringrazio per la preziosa collaborazione la dott.ssa Chiara Panattoni.


Il gruppo come strumento volto ad esplorare la relazione tra gli utenti ed il Centro Diurno.
Resoconto di un progetto in corso al Dipartimento di Salute Mentale di Anzio
           

1. Premessa

Una delle psichiatre che lavorano al CSM di Anzio, agli inizi del mese di febbraio del corrente anno, contatta chi scrive questo resoconto, tirocinante presso il medesimo Servizio: vorrebbe parlarmi di una proposta di lavoro. Si tratterebbe di “fare un gruppo” con i pazienti del Centro Diurno (CD) dello stesso Dipartimento ASL Roma H.
La motivazione avanzata concerne un adempimento: viste le difficoltà nello stanziare in breve finanziamenti destinati alle cooperative sociali che si occupano delle attività con gli utenti del CD, il gruppo sarebbe un’alternativa utile a riempire il tempo. La psichiatra in questione, tra l’altro, sa della mia partecipazione al gruppo di psicoterapia del dott. S. Interpellati quest’ultimo ed il Responsabile del Dipartimento, per sondare il terreno circa un assenso (S., dirigente psicologo, è il tutor del mio tirocinio) che in seguito ottiene, mi chiede quindi di condurre questo gruppo nella sede del Centro Diurno.
Le faccio una contro-proposta: stilare un progetto ove costruire un setting gruppale non costituisca in sé un obiettivo, andando a sommarsi ad altri momenti “esperenziali”, per esempio; bensì funzioni da strumento per un intervento volto ad esplorare la relazione tra i pazienti ed il Centro Diurno, con l’obiettivo di comprendere come tale rapporto organizzi od ostacoli un ipotetico percorso evolutivo. In altri termini: è possibile una qualche forma di sviluppo per gli utenti del Centro Diurno, rinunciando, da parte degli operatori, alla strisciante fantasia di curare la malattia mentale?
In gruppo si istituirebbe un pensiero sulle emozioni che fondano le modalità relazionali di queste persone. Una funzione in controtendenza rispetto alle azioni consuete nella vita del Centro, per far emergere una domanda, per accompagnare un processo decisionale che connetta il cosa desiderare al come realizzarlo. Per fare delle ipotesi di uso degli apprendimenti nell’ambito della quotidianità “altra” dal Centro stesso (la famiglia, o il lavoro, o il desiderio di tradurre le esperienze del Centro in lavoro…). Ciò entro dei limiti, considerando le diversità e le risorse dei singoli.
Scrivo il progetto e lo consegno alla stessa psichiatra, al Responsabile, al tutor (che lo supervisiona); inoltre ad una infermiera del CD e ad una collega laureata in psicologia, tirocinante post-lauream, le quali mi chiedono di partecipare. Si fonda un interesse, si costruisce una committenza. Saranno prodotti resoconti a monitoraggio e verifica del lavoro svolto.
Il resoconto che segue concerne i primi incontri del gruppo del Centro Diurno, a frequenza settimanale.

2. Ipotesi sulla cultura locale dei partecipanti al gruppo del Centro Diurno

Inizio chiedendo ai partecipanti di presentarsi, associando ciò che viene alla mente rispetto al rapporto con il Centro Diurno (CD). Ad esempio: da quanto tempo lo si frequenta e che tipo di problemi si prospettano.
Si susseguono risposte di grande interesse, ove la propensione a parlare è direttamente proporzionale alla significatività di due variabili: le esperienze che alcune di queste persone hanno fatto in altri contesti gruppali e soprattutto il tempo, in certi casi ben oltre il lustro, che molti continuano a spendere nella relazione con il Centro.
Tra i più giovani, nell’evocare problemi, ricorre la parola “lavoro”, dimensione sospesa emozionalmente tra il lutto di una perdita ascritta alla propria malattia mentale ed il desiderio di tornare ad investire su rinnovabili capacità produttive. Ma al momento si tratta quasi di un fragile, etereo sussulto onirico se confrontato alla dura concretezza di una realtà esterna vissuta come escludente. E’ pur vero che al CD le attività prevalenti possono ascriversi all’area della formazione al lavoro, ma quanto tali proposte tengono in considerazione le domande, le differenze individuali, le competenze e le aspirazioni dei singoli?
Poco a quanto pare, perché seppur a volte interessanti tali proposte si organizzano su offerte standardizzate, che appiattiscono ognuno dei partecipanti su di una univoca, debole funzione discente. Ci si aspetta che tutti siano uguali e che si aderisca adempitivamente. Chi si rifiuta deve comunque pescare qualcosa di “convincente”, pena l’ulteriore esclusione ed il rimando all’ennesima categoria diagnostica a giustificazione dell’apatia.
Trasversalmente emerge la sensazione che gli utenti rimangano schiacciati dalla prevalenza di un continuo processo di infantilizzazione, laddove poi i prodotti dei lavori di artigianato, cucito, decoupage, restano confinati tra le mura del Centro o al limite esposti ad una fruizione ludica, senza una riflessione sulle ipotesi d’uso delle competenze apprese, spendibili altrove quali opportunità di sviluppare un mestiere e perché no, una professione.
E’ evidente che non tutti possono avere accesso a quelle risorse simboliche in grado di interfacciarsi con il tentativo di conferire cambiamenti concreti alla propria esistenza, di ricevere riscontri dalla realtà circostante, ma rimanendo nella logica che nullifica differenze si ingenera un circolo vizioso che mortificando tutte le risorse finisce per rendere un muro invalicabile qualunque ipotesi di vita lavorativa, potenzialmente configurabile al di là del CD.

venerdì 17 febbraio 2012

Le emozioni che precedono la parola: una consulenza privata

La letteratura psicoanalitica, storicamente, poco si è soffermata sugli aspetti comunicativi non parlati, concernenti il rapporto tra cliente e professionista. A volte un odore, dei particolari nell'abbigliamento, la trascuratezza o l'appariscenza possono costituire tracce di lavoro che anticipano e al contempo intersecano le trame emozionali rintracciabili nella narrazione dei problemi del consultante.

Il resoconto che segue si propone di trattare la questione, sinteticamente e dentro un'esperienza di lavoro diretta.

Una paziente in consulenza da circa due mesi mi avverte telefonicamente, poche ore prima dell’appuntamento previsto, di non poter venire in seduta. E’ la seconda settimana consecutiva che disdice con la medesima modalità, seppur con giustificazioni diverse. Si scusa ripetutamente, aggiungendo che sente, tuttavia, di aver bisogno di venire. Vorrebbe una seduta fuori dagli accordi già presi, in un giorno diverso da quello abituale.
Le propongo invece il consueto appuntamento settimanale, presso il Poliambulatorio. Stesso giorno, stessa ora, rimandando la discussione al momento dell’incontro.
Mi resta nella mente la questione del bisogno, che leggo quale spinta ad una gratificazione non rimandabile, alla stregua di un impellente istinto nutritivo che cancella il riconoscimento di un contesto, di una relazione ove esista reciprocità.
Questa giovane donna, S., sembra oscillare lungo il continuum ai cui estremi si pongono appetizione consumatoria e sazietà autistica, come fosse un neonato il cui unico pensiero configuri l’assenza di una gratificazione, cercata ed agita tramite l’utilizzo di un oggetto-parziale-seno di cui non si avverte nemmeno il calore del contatto.
E’ venuta in consultazione perché questo assetto relazionale, reciprocato specularmente dall’attuale compagno “accudente”, sta fallendo. Lui le rimprovera i continui atteggiamenti capricciosi, le richieste di rassicurazione sulla scia di reiterate fantasie abbandoniche. In sintesi è stanco di esistere unicamente in funzione delle insicurezze di lei. Ma al contempo la incista in questa posizione ancillare, di dipendenza, non accettando, come la stessa S. del resto, di uscire definitivamente da tale dinamica relazionale. Si sono lasciati ma non riescono a lasciarsi, perché come uno dei due dichiara l’intenzione di chiudere l’altro riprende i contatti, con telefonate, sms, o presentandosi “a sorpresa” (come la richiesta della seduta “estemporanea”) presso il rispettivo luogo di lavoro.
La telefonata che ricevo diviene quindi, nell’ambito di un setting tenuto volutamente stabile, materiale clinico importante, un nesso transferale su cui lavoriamo ampiamente.
Ma ancor più a monte c’è un aspetto emozionale non parlato che S. agisce seduta dopo seduta, aspetto che ha fortemente a che vedere con il suo essere dentro ed al contempo essere fuori dai rapporti, come chi frettolosamente va a prendersi qualcosa da qualcuno, allo scopo di saziare i propri bisogni. La donna non toglie mai il giubbotto durante i colloqui, nemmeno quando nella stanza la temperatura si aggira sui 26 gradi centigradi, grazie al funzionale condizionatore. E’ come se S., con una parte di sé, fosse altrove anche quando mi siede di fronte, quasi entrasse in un negozio in chiusura per fare l’ultimo acquisto.
Non è la prima volta che ironizziamo sulla sua succinta corazza, ma è solo quando integriamo il dentro, noi entro il setting, ed il fuori, le sue relazioni esterne che S. inizia ad elaborare il senso simbolico dell’esserci e del non esserci, del predare il nutrimento emozionale per poi saziarsi, ripetendo un ciclo inesorabile di egocentrico infantilismo. Di lì una serie di costruzioni delineate assieme, per connettere sulla falsariga di quella lettura, altri eventi significativi della sua vita sociale, familiare e lavorativa.

venerdì 13 gennaio 2012

Cronicità: etimo, storia e modello medico

Pubblico la prima parte di un articolo inerente il problema della "cronicità" all'interno dei Servizi di Salute Mentale.
Si tratta di una questione complessa, che prende forma attorno alla "pretesa" contestuale di guarire i pazienti affetti da gravi psicopatologie. Mi propongo di riflettere sulle alternative possibili di intervento psicologico con tale tipologia di pazienti, a partire da una ri-costruzione storica e clinica del concetto di cronicità.

Se si parla di cronicità fantasmaticamente sussiste l’attesa di un esito.

Nel mondo greco, ereditata dalle civiltà antiche, era predominante una concezione ciclica del tempo, probabilmente indotta dall’osservazione della regolarità dei moti degli astri o della ripetizione immutabile delle stagioni.
In effetti, quella ciclica è nell’antichità la più diffusa concezione della temporalità. Come le stagioni si susseguono e ritornano con ritmica cadenza, così le generazioni umane e le loro attività si succedono e ritornano con regolarità. È l’idea che troviamo già in Omero (VIII secolo a. C.): “Come quelle delle foglie sono le generazioni degli uomini; le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva feconda le produce al ritorno della primavera; così le generazioni degli uomini: nasce una, l’altra dilegua” (Iliade VI, 146-149). Il divenire temporale viene raffigurato da una ruota: tutto a suo tempo ritorna, tutta la storia è un eterno ritorno. Tale concezione permette all’uomo arcaico di mitigare la propria impotenza innanzi all’irreversibilità del tempo, alla distruzione irreparabile delle cose, al perire definitivo dei viventi.
Chronos, nella cultura ellenica dell’epoca, è la parola che connota la dimensione temporale specifica di cui sopra, espressione di un tempo univoco e predeterminato, dove la ciclicità è la cornice entro cui ogni epoca sorge e svanisce. Nel ciclo, alla stregua dell’iconografia del serpente che si morde la coda, l’avvicendarsi delle ere non ha una finalità, ma semplicemente una continuità tra fine ed inizio, quale inesorabile ripetizione del già noto.
Sarà poi la cultura giudaico-cristiana ad orientare linearmente il tempo, rendendolo vettore su cui si posizionano eventi irripetibili (si pensi al lessema “cronologia”, ad esempio, o alla stessa collocazione degli accadimenti a partire dalla nascita di Cristo).