lunedì 2 luglio 2012

La donna senz'abito da sposa

Torna da me in consultazione privata, dopo più di un anno di interruzione, una donna di 39 anni che attualmente vive sola. Le modalità di simbolizzare il problema, allora come oggi, sono simili. Alessandra sente di non vivere una relazione d’amore stabile. In ogni rapporto in cui si prova, forse al di là di un ri-conoscimento dell’altro, lei tende invariabilmente a prefigurarsi un esito specifico: il matrimonio.
Proviene da una famiglia del sud Italia immersa in una cultura che fatica a dialogare con alcuni dei cambiamenti del nostro tempo. Tra rabbia ed invidia la nutrita parentela di cui tale famiglia si sente parte, reciproca controlli. In loco o a distanza. I legami di sangue persistono e si rafforzano quasi univocamente per restringere l’orizzonte del visibile sui paragoni: la figlia di tizio si è sposata, caia è sistemata da tempo, sempronia è bella blindata perché guadagna molto ed è prossima a qualche lieto evento definitivo e definitorio di una identità stabile, perenne…mortifera, verrebbe da dire.
In altri termini, per i genitori e la vastitudine moltipicatoria di parenti fantasmatici della mia cliente (cugine, zie, nonne, padri minaccianti e madri luttuose ossessionate dal bianco di un certo abito…), la donna s’ha dda sposà.
In effetti ogni volta che incontra qualcuno, sulla fronte di Alessandra sembra accendersi un’insegna luminosa ad intermittenza: c’è scritto sposami! Non è difficile immaginare che il qualcuno di turno, prima o poi, si defili a gambe levate. Così come viene da pensare che ad Alessandra non freghi nulla di sposarsi sul serio se passa da un uomo all’altro alla stregua di una modella alle prese con i tanti abiti di una sfilata.
La donna, sollecitata spesso a rifletterci, è sospesa tra l’assecondare ed il volgersi reattivamente a tali fantasie, configuranti qualcuno che decide per noi. Comodo, se questo ci esenta dal confrontarci sul senso di una scelta nostra.
Anche per ciò che riguarda il lavoro Alessandra è stata spesso in attesa di qualcuno che se la “caricasse” definitivamente. Ha fatto la parrucchiera ma con parsimonia rispetto all’investirci. Lavaggio, phon e acconciature già decise: sì, ovvio; proporsi per imparare a tagliare, per contrattare quindi sul serio con i desideri di qualcuno, mai.
Dopo una serie di disavventure con vari datori di lavoro simbolizzati come padri-padroni che non la assumevano a tempo indeterminato (non se la sposavano, potremmo dire), è riuscita, nel corso dell’anno di “separazione consensuale” con me, a tornare in un negozio di parrucchieri. Prestigioso, stavolta; con un contratto migliore e forse con una embrionale voglia di crescere professionalmente, nello specifico.
Allora aveva giustificato l’intenzione di sospendere la consulenza per una transitoria difficoltà economica. La mia proposta di dilazionare o post-porre gli onorari non le sembrava realizzabile. Ma c’era evidentemente qualcos’altro, nascosto sia dal suo scegliere di glissare sulla questione che da una sorta di sollievo, da parte mia, nello “staccare” per qualche tempo da un lavoro che sentivo tremendamente faticoso.
Quando Alessandra mi ricontatta arriva con un problema simile al vecchio, scrivevo più su. Stavolta però ci sono anche aspetti diversi. Viene da una relazione appena  interrotta con il fratello di una sua amica, Emanuela. Amica con la quale ha sempre avuto un rapporto intenso e competitivo, a volte perversamente orientato a rinfacciarsi rabbiosamente smacchi per uomini passati prima per l’una e poi per l’altra. Tra le due donne, tuttavia, lo “scambio” non concerne gli uomini, riguarda bensì il confondere continuamente l’essere amiche con l’essere nemiche. Quest’ultimo affronto “predatorio” si carica di aggravanti “endogamiche”: Alessandra ha messo le mani sul fratello dell’amica-rivale. Tale continua messa in atto di un “terzo escluso” di edipica memoria, trova in seguito un nuovo pretesto. Emanuela mette al corrente il fratello circa presunte frequentazioni maschili di Alessandra. Lui pare crederci e non crederci. Poi litigano e chiudono i contatti.
Ricostruire una narrazione che non somigliasse alla puntata 7493 di una soap-opera brasiliana di cui si ignoravano (per fortuna) le precedenti, è stata un’impresa titanica. Di qui forse la fatica di cui sopra…
Quando Alessandra parla, mediamente, si capisce poco. Spariscono i soggetti, anzitutto. Le faccio spesso notare come lei pretenda che io sia talmente dentro la sua vita da potersi permettere di dare tutto per scontato. E su un piano trasversale: le persone, gli oggetti interni cui fa riferimento si appiattiscono drasticamente. Ognuno (lui, lei, lei, lui…sì, ma lui/lei chi??) è uguale a tutti gli altri e tutti sono identici ad ognuno. Un insieme infinito…
Talvolta è la donna ad assumere le sembianze delle clienti del negozio presso cui lavora e mette me al posto di chi, come lei stessa dice, deve sorbirsi le lamentele e le tristezze senza battere ciglio.
Alessandra fugge dalle sue emozioni. Quando per esempio la invito a fermarsi, a stare su quel che sente in rapporto alla densità di alcuni passaggi, sembra dissolversi. Deve riprendere a macinare parole vuote.
Dopo alcuni mesi di reiterati riscontri in tal senso le cose iniziano a cambiare.
La legge del terzo escluso si riconfigura per poi essere elaborata: Andrea smette di essere il fratello di Emanuela per iniziare, forse, a diventare qualcuno da conoscere. Tornano a frequentarsi e nel frattempo Alessandra sceglie di dire no agli altri uomini che si avvicendano contemporaneamente alla relazione con Andrea. Quando succede, per la prima volta dopo un anno e mezzo di sedute, riesce a commuoversi. In precedenza la donna si era sempre adeguata alle richieste di quei “tutti identici ad ognuno”, agendo una spaventosa aggressività fagocitante. Pur di restare attaccata a qualcuno e pur soffrendone, la donna era disposta a denigrarsi, a farsi trattare come un oggetto. Ma non è altrettanto denigratorio, nei confronti dell’altro, fingere di accontentarsi?
Nelle ultime sedute, parallelamente ad una serie di riassetti importanti nella vita di questa donna, torna la questione centrale, ossia l’attenzione ossessiva per il salvifico esito atteso. L’aspettarsi che qualcuno, nella fattispecie Andrea, le prometta amore eterno o che quantomeno la rassicuri sulla cornice: noi due stiamo insieme, vorrebbe sentirsi dire. Sembra un modo per continuare a non occuparsi di quello che c’è: una relazione comunque duratura e che sta in piedi stabilmente. Alessandra continua a cagarsi addosso quando si tratta di prendere l’iniziativa; quando il confronto circa l’interfacciare desideri non è più eludibile. Tutto, fuorché rischiare di perdere qualcuno. E’ questo il suo pensiero. Tutto fuorché rischiare di stare veramente con qualcuno, le dico di rimando. Ci rendiamo quindi conto che quei suoi no alle richieste sessuali di altri fanno in realtà leva sulla rassicurante presenza di Andrea. Fosse stata sola sarebbe stato diverso, ammette. Bene, qualora però la si smetta di pretendere il giusto ruolo da farsi affibbiare estrinsecamente (fidanzata? Moglie?), le dico.

Conclusioni


Sento una significativa quota di frustrazione nell’ambito di questa consulenza. La fatica non si connette semplicisticamente al decostruire il concretismo della mia paziente, se ci penso bene.
Provo a riformulare delle ipotesi, basandomi su aspetti contro-transferali. Alessandra è perfettamente in grado di elaborare, di costruire senso con me rispetto a quel che vive. Ma non lo usa. Rimanda e rimanda e rimanda, svuotandosi di una sua identità. Di riflesso spinge gli altri a forzarla entro ruoli che le consentano di rimanere in rapporto passivamente. 
Ecco, sento che anch’io la sto spingendo ad assumere una forma; nello specifico: farsene necessariamente qualcosa del nostro lavoro insieme. D’altro canto è come se per la donna il potersi permettere delle azioni pensate, per provare a cambiare relazioni in cui al momento è posizionata mimeticamente, significasse perdere il rapporto con me. Probabilmente la teoria implicita che immobilizza Alessandra anche nel campo transferale, potrebbe suonare così: se uso il lavoro con il dottor Casuccio lui potrebbe congedarmi…Ed in effetti io sto reciprocando questa fantasia inconscia, perché forse vorrei davvero chiudere la consulenza, vista la frustrazione. Cavatela da sola, cazzo! Mi hai rotto i coglioni. Di qui, forse, quella vecchia interruzione che rischia di presentificarsi come nuova. Esplicitare meglio queste simbolizzazioni reciproche, condividerle ed interpretarle, potrebbe aiutarci.
Prima di cimentarmi in questo resoconto non ce l’avevo affatto un’ipotesi definita in tal senso. Scrivere mi ha consentito ancora una volta di focalizzare e riorganizzare una traccia di lavoro.
Resocontare, per uno psicologo, può essere una spinta al divertimento, quando riscopre che affidarsi al pilota automatico, oltre a sottrarre interesse sul dove si è, finisce per togliere il gusto del viaggio.

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