lunedì 7 maggio 2012

Ri-apprendere dall’esperienza: una situazione clinica al CSM di Anzio


Il caso che presento riguarda una consulenza psicoterapeutica individuale al Centro di Salute Mentale di Anzio.

1. Il primo colloquio con Corrado

Incontro Corrado, per la prima volta, entro la cornice di un colloquio finalizzato alla somministrazione di un MMPI. Si tratta di un invio “interno” al Servizio. La psichiatra con cui l’uomo è in rapporto da circa un anno, mi chiede un ulteriore accertamento diagnostico, nell’ipotesi condivisa con lo stesso Corrado di certificarne l’inabilità al lavoro. La cartella clinica che consulto prima del colloquio fa riferimento ad una depressione maggiore e ad un disturbo paranoide della personalità.
Ci presentiamo e ci orientiamo su tempi e obiettivi del colloquio. La psichiatra gli ha detto di me, prospettandogli i motivi dell’incontro odierno.
Gli chiedo che idea si sia fatto di questa certificazione. A quali problemi pensa che possa rispondere, ad esempio.
Corrado, barba incolta, tuta da ginnastica, capelli arruffati e aria stropicciata di chi è passato da un letto al CSM senza soluzione di continuità (sono le 14.30), inizia a parlare.
Ha smesso di lavorare circa dieci anni fa, appena passati i quaranta (oggi ne ha 52). Faceva ed in passato ha sempre fatto il rappresentante di tessuti per tendaggi. Per conto di vari committenti-fornitori si recava presso esercizi che a loro volta vendevano al pubblico. Gradualmente, tra enormi difficoltà mi dice, era riuscito ad allacciare rapporti duraturi con alcuni clienti-negozianti. Ma è sempre vissuto in una condizione di semi-indigenza, isolato nella quotidianità e pervaso da un senso di crescente inutilità. Ha quindi stabilito un legame di dipendenza rispetto a quelle esigue relazioni di lavoro, comunque poco produttive sul piano di un ritorno economico.
Nel corso degli anni i problemi sono aumentati. Oggi, aggiunge, nessuno è più disposto ad acquistare tessuti pregiati. La crisi economica, nella sua esperienza, ha radici ben più lontane nel tempo. Ha quindi agìto un lungo addio, continuando a pagare le tasse pur avendo già smesso di lavorare da qualche anno, forse nell’intuizione che la perdita definitiva di quell’unico appiglio di realtà, seppur ormai dissimulato, lo avrebbe privato di un’identità, del sentirsi nella categoria o nella classe, per dirla alla Matte Blanco, degli adulti-lavoratori.
Si ritrova in quel che ipotizziamo, al che provo ad aprire sui nessi tra quell’interruzione (vecchia ormai di dieci anni) e l’immobilismo successivo. Nessun desiderio di ricominciare, di riorganizzarsi, di cambiare lavoro?
Fa resistenza su questo, tende a liquidare la questione, al che mi viene in mente di approfondire il rapporto tra l’importanza del suo lavoro in termini di sopravvivenza/sostentamento e la relativa commistione di piacevolezza/spiacevolezza che mi sembrava gli attribuisse.
Corrado torna a produrre parole, stavolta con una maggiore fluidità ed emozioni meno addomesticate. Fino a quel momento il suo eloquio mi arrivava come qualcosa di meccanico, lento e cantilenante, seppur stilisticamente colto e ricercato.
No, non gli è mai piaciuto fare quel lavoro. Un ambiente, a suo dire, traboccante di opportunisti e colleghi senza scrupoli, pronti a prevaricarti pur mostrandosi amici. Uno troppo buono come lui si è sempre sentito un pesce fuor d’acqua nei confronti di un contesto infestato da squali. Oggi la sua vita si trascina stancamente, non si sente più in grado di reggere l’impegno di un lavoro. La pensione sociale gli consentirebbe quantomeno di sopravvivere.
Nel disordine di un tempo ormai privo di stimoli si limita a subire un significativo sfasamento del ritmo circadiano. Mentre Corrado parla del suo confondere il giorno con la notte, dei lunghi monologhi interiori nel silenzio circostante della solitudine, mi vengono alla mente immagini, citazioni, aforismi che intrecciano simmetricamente il tempo, l’uomo ed il nulla, da Friedrich Nietzsche (Quando guardi a lungo nell’abisso anche l’abisso finisce per guardarti dentro) al Nosferatu cinematografico di Herzog [1].
Comincio a chiedermi il perché di quelle associazioni così perturbanti, dominate dall’omogeneità indivisibile. Ripenso ai miei momenti di solitudine, alle notti insonni, al male di vivere che credevo sepolto dentro di me. L’unica risposta che sono in grado di darmi è che Corrado stia tentando di sintonizzarsi con qualcuno che possa sentire quello che lui sente, che possa contenere emozioni infinite senza distruggersi e senza distruggerlo.
Che lui ricordi, pochi sono stati i momenti davvero felici della sua vita. Connota così i primi anni di relazione con una donna dalla quale, racconta, ha avuto una figlia che ad oggi non vede quasi mai. La donna, continua, lasciandolo le ha portato via anche la bambina, andando a vivere con lei nella sua città di origine, nel nord del Paese.
Attribuisce la chiusura del rapporto all’insensibilità di questa persona, alla sua mancanza di comprensione per molti dei problemi di Corrado; non ultimo quello della madre schizofrenica in seguito deceduta, nonché della sorella di Corrado, a sua volta affetta da schizofrenia e della quale l’uomo continua ad occuparsi quando può. Si è sentito tradito perché la ex compagna non è stata capace di comprendere il suo dedicarsi loro, nel corso degli anni, soprattutto dopo la morte del padre dello stesso Corrado.
Gli chiedo se a ruoli invertiti lui avrebbe manifestato piena comprensione per la sua ex compagna, guardando da fuori a quella situazione, pervasa dalla difficoltà nel conciliare l’affetto profondo per i familiari con il senso d’impotenza per l’irreversibilità della loro condizione; senza contare le ulteriori frustrazioni per i problemi economici con i quali la coppia, già allora, si confrontava.
Sembra delinearsi uno spazio di elaborazione, seppur il discorso di Corrado finisce per incitarsi sull’esigenza di scindere il mondo in due categorie: buoni (lui stesso e l’oggetto interno-madre, le cui evocazioni lo commuovono sino alle lacrime) e cattivi (la persecutorietà dei politici, degli uomini di potere, del padre-padrone, delle donne abbandoniche che preferiscono i ricchi).
Terminato il colloquio fornisco alcune istruzioni utili a Corrado per compilare il test MMPI-2. Ci impiegherà più di due ore, dandomi in seguito un riscontro interessante. Mi dice che durante il lavoro sul test si è come risvegliato: mentre all’inizio aveva difficoltà di concentrazione, procedendo è andato via via più veloce, sino a trarne una sorta di giovamento.
Coerentemente con quanto raccontava durante il colloquio, facciamo l’ipotesi che dedicarsi ad un test significhi anche ri-organizzare una funzione di segmentazione temporale, ove sia possibile pensare in rapporto a degli stimoli che contengano, limitino e differenzino.
Gli viene in mente che ciò non è diverso da quello che ha provato durante l’interazione con me. Aggiunge che si è sentito capito, come raramente gli è successo in passato. Vorrebbe tornare, parlare con me, raccontarmi ancora della propria esperienza.
Gli dico che mi piacerebbe lavorare con lui. Avere degli appuntamenti a cadenza settimanale, rispettarli, muoversi verso qualcosa, significherebbe, in primis, immettere discontinuità nell’attuale piattezza delle sua vita. Mi riserbo tuttavia di parlare di questa possibilità con la psichiatra del CSM, persona che Corrado incontra attualmente una volta al mese, per monitorare l’assunzione di farmaci e per parlare con lei.
Resoconto oralmente del colloquio e del desiderio di Corrado di incontrarmi di nuovo alla stessa psichiatra. E’ una professionista competente ed umana. Tiene molto al suo paziente, si dice contenta e al contempo sorpresa di questa “evoluzione”.

2. Il percorso di consulenza: da oggetto parziale a persona

Inizio così, fuori da una consapevolezza strutturata, un percorso che mi metterà di fronte a fantasie salvifiche (quelle che Corrado mi attribuirà più volte) e ad una riflessione sui limiti della funzione psicoterapeutica. Soprattutto, e questa affermazione è figlia di una ri-elaborazione dell’esperienza, capirò che non si smette mai d’imparare ad essere uno psicologo. Ed è un pensiero che ha molto a che vedere con quella che considero una verità emozionale: per certi versi sono stato io il paziente di Corrado.
Il primigenio persecutore dell’uomo ha le sembianze paterne. Corrado lo ricorda come una persona arida, severa, rimproverante ed irraggiungibile. Un despota rispetto al quale non ha mai avuto il coraggio di opporsi. Condensa in lui ogni nefandezza ed è allo stesso padre che attribuisce la responsabilità della malattia della madre e della sorella.
Prima di dedicarsi al lavoro di rappresentante, Corrado ha frequentato la facoltà di medicina veterinaria, presso l’università di Perugia. Racconta di come si fosse piegato alla volontà paterna anche in quella circostanza. La genesi del suo senso di solitudine coincide con quegli anni di studio e sacrifici forzati, resi nefasti dalla progressiva configurazione nemicale dei compagni di corso (coloro che avevano potuto scegliere e dai quali si sentiva escluso, emarginato, diverso) e dalla generalizzazione di quel codice paterno persecutorio, cui l’Università, gli esami ed i professori appartenevano simbolicamente.
Poi il crollo, il ritorno a casa da perdente, non prima di essersi consumato in pianti da riempire un asciugamani.
Con riformulazioni e confrontazioni mirate, la cui brevità sento direttamente proporzionale al rischio di confutare la continua richiesta di Corrado di essere creduto, cerco di arginare e ricostruire il fluire esondante di “detriti”, “pezzi” di un mondo interno che erode la realtà, ripopolandola di rappresentazioni scisse di sé e degli oggetti ove convivono impotenza, umiliazione, onnipotenza vendicativa, figure infinitamente cattive ed infinitamente buone.
Un primo aspetto di elaborazione, ad esempio, concerne il nesso tra il sofferto rifiuto di essere come voleva suo padre (lasciare gli studi) e l’insistenza quasi masochistica nel perpetrare un lavoro poco remunerativo ma che lo faceva sentire indipendente. Corrado arriva a dire che se avesse lasciato prima il lavoro di rappresentante avrebbe confermato di essere un fallito agli occhi del padre. E’ comunque l’attuale insopportabilità di quel “Super-io” giudicante (per dirla alla Strachey) a “costringerlo” proiettivamente a liberarsi della colpa, configurando minacce esterne.
Emerge, seduta dopo seduta, la sua fervente fede cattolica, l’appellarsi ad un Padre finalmente benevolo e misericordioso, compensante la crudeltà del genitore maschile. Corrado inizia a simbolizzare anche me come un “salvatore” dalla bontà indiscutibile, contrapponendomi drasticamente a coloro che lo denigrano quotidianamente e subdolamente: dagli sconosciuti che lo offendono al supermercato, agli occhi dei vicini che lo scrutano in modo sinistro; dalle donne superficiali e rifiutanti agli operatori del CSM che a suo dire spiano le nostre conversazioni.
Comincio a sentire, contro-transferalmente, l’insostenibilità di quell’attribuzione stringente, primitiva, che mi confronta nuovamente con i miei sensi di colpa, con i miei fantasmi. Tu sei un santo [2], mi ripete Corrado, contiguamente ad interpretazioni che tentano invano di mettere in discussione la corrispondenza biunivoca tra fatti ed emozioni.
Arriviamo ad uno stallo. Il campo che condividiamo si va restringendo e la partita si gioca esclusivamente entro il doppio registro della mia idealizzazione e del crescendo esponenziale di diffidenza verso tutto e tutti. Ho la sensazione che mi stia tenendo al riparo prima di sferrarmi l’attacco decisivo.
E la cosa avviene.
Nel contesto di una seduta che segue una serie di incontri fondati sul totale rifiuto di un qualsiasi accenno di pensiero meta, Corrado è sulla soglia del delirio psicotico. Non c’è verso di mettere in discussione l’idea che gli operatori del Servizio lo offendano alle spalle, insultandolo sottovoce. Non sconfermo mai apertamente queste convinzioni, provo ad integrare con altre ipotesi. Ironia della sorte, mentre racconta del “fatto” che in passato si è accorto che le infermiere ascoltavano i nostri discorsi, perché uscendo dalla stanza ne ha incrociate due in corridoio, una di loro entra senza bussare. Cercava uno spazio per una nuova accoglienza, convinta di trovare la stanza libera. Si scusa e se ne va. Corrado rimane per interminabili secondi con lo sguardo torvo e fisso sulla porta ormai richiusa.
Mi viene da dire una cazzata con una sfumatura dialettale, per provare a spezzare la tensione: Corrà, me sa che c’hai ragione. Se apri di botto ti casca in braccio. Sta con l’orecchio incollato alla porta…
Sorprendentemente funziona. Riusciamo a prenderci meno sul serio, parlando ironicamente della cultura del Servizio, della diagnosi, del nostro rapporto. Ma durante la seduta successiva l’uomo ricomincia il tentativo di sbarazzarsi di quella quota di incertezza che nutre nei miei confronti. E’ a caccia della conferma che anch’io sono come gli altri: un persecutore travestito da santo.
Le associazioni che fa lo portano ad una situazione vissuta prima dell’inizio del nostro incontro. Nella sala d’attesa ha risposto simpaticamente alla curiosità di un bambino che gli si era avvicinato. La madre, dice, glielo ha sottratto bruscamente, riprendendolo in braccio, dopo averlo guardato in cagnesco.
Certo, gli dico, se prova anche a considerare che in una sala d’attesa come quella di un CSM ci si può sentire in balia di una situazione sconosciuta, disturbante. Si può arrivare a pensare, come suggerisce il senso comune, che sia pieno di “matti pericolosi”. C’è l’ansia di aspettare, di essere finalmente visti. Se ci fosse stato qualcun altro al posto di Corrado quella donna avrebbe reagito allo stesso modo.
Corrado non ne vuole sapere, inizia una escalation di deterioramento totalizzante del pensiero. Arriva (finalmente?) a dirmi con una rabbia sconosciuta sino a quel momento che non gli credo, che sono come tutti gli altri. E’ quindi inutile per lui continuare a venire, perché ha bisogno di qualcuno che aderisca totalmente alle verità che dice.
Mi incazzo di brutto, come raramente mi è capitato con un paziente. So che sto rispondendo all’attesa di Corrado, che sono caduto nel tranello, ma al tempo stesso, da qualche parte dentro di me, sento che devo tenere una fermezza autorevole e rigorosa. Gli dico che non sono lì per accodarmi silentemente alla sua verità, sempre che si possa parlare di verità quando ci limitiamo a vomitare sul mondo esterno quello che ci passa per la testa! Senza pensare. Ecco, noi ci ritroviamo qui settimanalmente per pensare insieme, ma la sua continua sfiducia finisce per rendere ostili gli altri. Se ti sta sui coglioni qualcuno e continui a guardarlo male, come vuoi che reagisca, se non trattandoti di conseguenza? Ma è lui che ha un problema a prescindere o sei tu che lo stai simbolizzando come una minaccia?
Segue un lungo silenzio. L’ora finisce. Gli do appuntamento per la settimana successiva. Corrado mi guarda e forse per la prima volta mi vede. Pensavo che mi avresti cacciato, risponde. 

Conclusioni

Di lì in poi le cose cambiano. Quella piccola, apparentemente insignificante azione interpretativa gli consente di passare da una posizione schizo-paranoide ad una depressiva. Corrado comincia a percepirmi come un “oggetto-totale”. E’ vero che sei un santo ma sai essere anche un diavolo, mi dirà nel tempo a venire.
Mi viene da dire che la consulenza con quest’uomo è costellata di accomodamenti e successive assimilazioni.
Corrado mi ha insegnato a liberarmi di un fardello teorico difensivo. A prendermi dei rischi, a rielaborare esperienze personali tenendo conto di dimensioni contro-transferali che non riguardavano, evidentemente, solo il nostro rapporto. E’ su questa falsariga la mia affermazione circa il mio “essere un suo paziente”.
Ho poi imparato ad approfondire gli aspetti narrativi di chi parla di sé in seduta. Non perché attribuisca alla stessa narrazione un senso catartico, bensì per aprire la possibilità di costruire nessi più complessi, sapendo aspettare il momento opportuno per interpretare. E’ così che con il mio paziente arriveremo a condividere un senso profondo sull’evoluzione della sua diffidenza paranoica. Lungo il difficile percorso della sua esistenza, c’è più di un persecutore reale.
Un padre-padrone, una madre ed una sorella schizofrenica. Un’attualità ed un passato intrisi di povertà ed esclusione sociale. Quale fiducia di base avrebbe potuto mai sviluppare quest’uomo?
Eppure della psichiatra del CSM e di me Corrado ha iniziato a fidarsi. Così come della possibilità di star meglio con gli psico-farmaci.
Ad oggi riesce ad uscire per andare a fare la spesa senza udire voci alle sue spalle che lo denigrino. La pensione sociale per inabilità al lavoro gli consente di mangiare.
Ha ancora difficoltà nel prendere sonno e no, non è guarito. Non si guarisce dalla malattia mentale, seppur nei Servizi molti continuino a pensarlo. Per qualche momento, preso dalla “santità” taumaturgica, sono stato tentato di crederci.
Ventiquattro sedute di psicoterapia servono a poco, però a qualcosa servono. Ci ha aiutato l’ironia, soprattutto da quando ho cominciato a confermare a Corrado le mie imperfezioni, gli inevitabili scarti tra pensieri ed azioni, tra immagine pubblica e difetti “privati”, questi ultimi sempre scomodi da ammettere.
L’ultima volta che sento Corrado risale a qualche giorno fa. Telefona al CSM, mi cerca. Vorrebbe tornare. Forse desidera qualcosa che non sia solo una ri-elaborazione della sua storia o una remissione sintomatica. Forse oggi spera.


[1] (…) Il tempo è un abisso profondo come lunghe infinite notti.  I secoli vengono e vanno; non avere la capacità di invecchiare è terribile. La morte non è il peggio: ci sono cose molto più orribili della morte. Riesce a immaginarlo? Durare attraverso i secoli, sperimentando ogni giorno le stesse futili cose.

[2] Sin dal secondo colloquio Corrado mi chiede di darci del tu. Acconsento senza esplorare la questione sul piano simbolico della relazione, perché penso che in quel momento l’uomo lo vivrebbe come un rifiuto distanziante. In seguito, a valle del consolidamento del rapporto e della discutibilità di aspetti transferali, torneremo sulla questione.

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