venerdì 30 marzo 2012

La funzione psicologica nei Servizi di Salute Mentale: il gruppo come strumento di intervento

Il resoconto che pubblico può considerarsi una prima integrazione alle considerazioni più generali espresse in un post precedente, quello relativo al problema della cronicità e della cura della malattia mentale.
C'è spazio per la costruzione di una funzione psicologica nei Servizi di salute mentale? O la psicologia è destinata a rimanere ai margini della cultura psichiatrica dominante?
Dopo 35 anni di territorializzazione, a valle della chiusura dei manicomi (legge Basaglia), la questione rimane insoluta.
Ma forse qualcosa si può fare.
Ringrazio per la preziosa collaborazione la dott.ssa Chiara Panattoni.


Il gruppo come strumento volto ad esplorare la relazione tra gli utenti ed il Centro Diurno.
Resoconto di un progetto in corso al Dipartimento di Salute Mentale di Anzio
           

1. Premessa

Una delle psichiatre che lavorano al CSM di Anzio, agli inizi del mese di febbraio del corrente anno, contatta chi scrive questo resoconto, tirocinante presso il medesimo Servizio: vorrebbe parlarmi di una proposta di lavoro. Si tratterebbe di “fare un gruppo” con i pazienti del Centro Diurno (CD) dello stesso Dipartimento ASL Roma H.
La motivazione avanzata concerne un adempimento: viste le difficoltà nello stanziare in breve finanziamenti destinati alle cooperative sociali che si occupano delle attività con gli utenti del CD, il gruppo sarebbe un’alternativa utile a riempire il tempo. La psichiatra in questione, tra l’altro, sa della mia partecipazione al gruppo di psicoterapia del dott. S. Interpellati quest’ultimo ed il Responsabile del Dipartimento, per sondare il terreno circa un assenso (S., dirigente psicologo, è il tutor del mio tirocinio) che in seguito ottiene, mi chiede quindi di condurre questo gruppo nella sede del Centro Diurno.
Le faccio una contro-proposta: stilare un progetto ove costruire un setting gruppale non costituisca in sé un obiettivo, andando a sommarsi ad altri momenti “esperenziali”, per esempio; bensì funzioni da strumento per un intervento volto ad esplorare la relazione tra i pazienti ed il Centro Diurno, con l’obiettivo di comprendere come tale rapporto organizzi od ostacoli un ipotetico percorso evolutivo. In altri termini: è possibile una qualche forma di sviluppo per gli utenti del Centro Diurno, rinunciando, da parte degli operatori, alla strisciante fantasia di curare la malattia mentale?
In gruppo si istituirebbe un pensiero sulle emozioni che fondano le modalità relazionali di queste persone. Una funzione in controtendenza rispetto alle azioni consuete nella vita del Centro, per far emergere una domanda, per accompagnare un processo decisionale che connetta il cosa desiderare al come realizzarlo. Per fare delle ipotesi di uso degli apprendimenti nell’ambito della quotidianità “altra” dal Centro stesso (la famiglia, o il lavoro, o il desiderio di tradurre le esperienze del Centro in lavoro…). Ciò entro dei limiti, considerando le diversità e le risorse dei singoli.
Scrivo il progetto e lo consegno alla stessa psichiatra, al Responsabile, al tutor (che lo supervisiona); inoltre ad una infermiera del CD e ad una collega laureata in psicologia, tirocinante post-lauream, le quali mi chiedono di partecipare. Si fonda un interesse, si costruisce una committenza. Saranno prodotti resoconti a monitoraggio e verifica del lavoro svolto.
Il resoconto che segue concerne i primi incontri del gruppo del Centro Diurno, a frequenza settimanale.

2. Ipotesi sulla cultura locale dei partecipanti al gruppo del Centro Diurno

Inizio chiedendo ai partecipanti di presentarsi, associando ciò che viene alla mente rispetto al rapporto con il Centro Diurno (CD). Ad esempio: da quanto tempo lo si frequenta e che tipo di problemi si prospettano.
Si susseguono risposte di grande interesse, ove la propensione a parlare è direttamente proporzionale alla significatività di due variabili: le esperienze che alcune di queste persone hanno fatto in altri contesti gruppali e soprattutto il tempo, in certi casi ben oltre il lustro, che molti continuano a spendere nella relazione con il Centro.
Tra i più giovani, nell’evocare problemi, ricorre la parola “lavoro”, dimensione sospesa emozionalmente tra il lutto di una perdita ascritta alla propria malattia mentale ed il desiderio di tornare ad investire su rinnovabili capacità produttive. Ma al momento si tratta quasi di un fragile, etereo sussulto onirico se confrontato alla dura concretezza di una realtà esterna vissuta come escludente. E’ pur vero che al CD le attività prevalenti possono ascriversi all’area della formazione al lavoro, ma quanto tali proposte tengono in considerazione le domande, le differenze individuali, le competenze e le aspirazioni dei singoli?
Poco a quanto pare, perché seppur a volte interessanti tali proposte si organizzano su offerte standardizzate, che appiattiscono ognuno dei partecipanti su di una univoca, debole funzione discente. Ci si aspetta che tutti siano uguali e che si aderisca adempitivamente. Chi si rifiuta deve comunque pescare qualcosa di “convincente”, pena l’ulteriore esclusione ed il rimando all’ennesima categoria diagnostica a giustificazione dell’apatia.
Trasversalmente emerge la sensazione che gli utenti rimangano schiacciati dalla prevalenza di un continuo processo di infantilizzazione, laddove poi i prodotti dei lavori di artigianato, cucito, decoupage, restano confinati tra le mura del Centro o al limite esposti ad una fruizione ludica, senza una riflessione sulle ipotesi d’uso delle competenze apprese, spendibili altrove quali opportunità di sviluppare un mestiere e perché no, una professione.
E’ evidente che non tutti possono avere accesso a quelle risorse simboliche in grado di interfacciarsi con il tentativo di conferire cambiamenti concreti alla propria esistenza, di ricevere riscontri dalla realtà circostante, ma rimanendo nella logica che nullifica differenze si ingenera un circolo vizioso che mortificando tutte le risorse finisce per rendere un muro invalicabile qualunque ipotesi di vita lavorativa, potenzialmente configurabile al di là del CD.
Allora non è ascrivibile alla casualità che due ulteriori aspetti di questa cultura locale si condensino attorno alle parole “famiglia”, “rifugio”, “protezione” da un lato; “stigma”, “minaccia”, “cattiveria”, “esclusione” dall’altro. In altri termini si ingenera una scissione tra un dentro percepito quale famiglia alternativa o contigua alla propria, con un vissuto di appartenenza rassicurante e consolatoria, ed un contesto sociale esterno minacciante e persecutorio, sempre propenso a puntare il dito, a denigrare la diversità entro la quale ci si riconosce. Ciò che sembra mancare è un pensiero meta sulla collusione tra il protezionismo familista e talvolta improduttivo del Centro Diurno, sul quale si riversa il falso problema della pretesa (impotente) di curare, di tenere sotto controllo la malattia mentale; ed il peculiare contesto sociale di Anzio, luogo dove la conoscenza tra persone risente di un provincialismo che etichetta il già noto entro gli stereotipi di quella coesione difensiva che al contempo reputa disturbante o nemicale ciò che è estraneo. Il rischio, limitandosi a colpevolizzare la cattiveria del mondo esterno, è proprio quello di proteggere separando, tenendo a distanza, infantilizzando persone che via via sentono di esistere, da malati, solo nei contesti deputati a trattarli in questa ottica.
Quali quindi le differenze sostanziali con gli ospedali psichiatrici di un tempo? La sola estinzione della cruenza dei metodi?

3. La storia di Catia

Catia è una giovane donna che frequenta il Centro da circa quattro anni. Proviene da un oscillante itinerario che va dall’assistenza del CSM al ricovero in SPDC e viceversa.
In gruppo racconta della propria vergogna, emozione che prova ogni volta che si imbatte in alcuni conoscenti che la incrociano sulla strada che percorre per arrivare al Dipartimento di Salute Mentale: al CD o allo stesso CSM, visto che continua a monitorare con la psichiatra l’assunzione di psicofarmaci. Quando le chiedono dove stia andando, Catia ha un sobbalzo, la tentazione di glissare, per poi ammettere con rabbia reattiva la propria scomoda verità.
Per Catia dire che si sta recando ad una struttura del Dipartimento, equivale a definirsi una malata di mente. E’ la sua relazione con i servizi a conferirle quella stringente identità. Perché? Siamo così sicuri che un simile vissuto sia univocamente connesso ad una personale ideazione paranoide? Oppure quel modo di simbolizzare se stessa, tra l’altro dentro una piena consapevolezza dei propri problemi, è anche ascrivibile al modo con cui viene trattata dai Servizi cui afferisce?
Dando a Catia la possibilità di parlare della propria storia si inizia a guardare al problema sotto un’altra ottica.
Racconta della sua relazione d’amore con un coetaneo, conclusa traumaticamente tempo fa. La giovane donna, su suggerimento della madre, tiene nascosta al compagno di allora  l’assunzione di psicofarmaci, necessari a stabilizzare il suo umore e ad alleviare gli stati depressivi. Dopo un paio d’anni la segretezza decade. A suo dire Catia viene sbugiardata da un’altra madre, quella del ragazzo con cui stava, la quale apprende della frequentazione del Centro di Salute Mentale, da parte della giovane, tramite i pettegolezzi di conoscenze comuni. A quel punto Catia ammette, aggiungendo che prende dei farmaci per il suo disturbo bipolare. Il compagno di Catia, sentendosi tradito e adeguandosi (come la stessa Catia, del resto) al diktat materno, chiude il rapporto.
Catia crolla e viene ricoverata dopo una lunga serie di fughe senza meta e tentativi di suicidio.
La donna si rende conto solo mentre rielabora questa esperienza quale sia il nesso tra il segreto di allora e l’attuale esibizionismo reattivo con il quale spiattella a chiunque del proprio rapporto con il Dipartimento. Due facce della stessa medaglia, ove tra assoggettamento e ribellione continuano fantasmaticamente a sussistere relazioni oggettuali fondate sul potere dell’uno sull’altro.
Quel che aggiunge dopo è invece tragicomico, perché la donna dice che il suo ex compagno avrebbe il complesso edipico! Così le hanno riferito al CSM. Se da un lato l’affermazione fa sorridere, dall’altro è inquietante come un modello psicoanalitico che consente di leggere configurazioni di rapporto, trasversalmente applicabile a chiunque, venga racchiuso e svilito entro un’affezione, una sorta di infermità. L’ingenua interpretazione di Catia è figlia del suo lungo insediamento nei Servizi di salute mentale, è un distorsione intrisa di quella cultura psichiatrica riduzionista, dove tutto o quasi viene ricondotto ad una patologia. Non è anche questo un modo incompetente di agire un potere?
Con l’ausilio dei partecipanti al gruppo, diamo una lettura complessa di quanto riportato da Catia. Ciò che abbiamo ascoltato non è solo ascrivibile al mondo interno della donna. C’è un contesto sociale, ci sono delle famiglie, c’è una rappresentazione locale della malattia mentale quale marchio che spaventa. E c’è una cultura dei Servizi che semplifica il senso di questi problemi, perché come nella famiglia d’origine di Catia la malattia psichiatrica viene ossessivamente controllata, in qualche modo sottratta all’alterità, ad un contesto relazionale, discorsivo, storico. Quanto riportato da Catia fa riflettere sul cambiamento di quell’assetto colpevolizzante che dopo la legge 180 la psichiatria scaricava sulle famiglie, costrette a riprendersi i malati, pena la rievocazione delle violenze manicomiali. Oggi le famiglie vengono ignorate a valle di una comunicazione diagnostica rispetto alla quale non hanno criteri di comprensione. Nella maggior parte dei casi, trattandosi di persone di modesta cultura, non possono che appellarsi al senso comune, al nascondere, al nascondersi, al negare, all’agire sempre nuove fantasie persecutorie laddove, tuttavia, perlomeno un persecutore reale esiste comunque.
Tornando alla sottrazione di alterità di cui si scriveva poco più su, nessuno dei partecipanti al gruppo è mai stato introdotto ad una prospettiva storica sull’argomento malattia mentale. Nessuno di loro sa che nell’antica Grecia la follia si circondava di un alone di sacralità, perché le manifestazioni irrazionali venivano interpretate come rottura del modo di pensare ordinario. Così come nessuno di loro ha mai riflettuto sul rapporto tra i cambiamenti storici, politici, sociali e le classificazioni psichiatriche ad oggi decadute, quali ad esempio la ninfomania e l’omosessualità, quest’ultima rimossa dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders soltanto nel 1973.
Ne discutiamo insieme.


4. Conclusioni

La costruzione di una funzione psicologica al Centro Diurno, può significare anche occuparsi di aspetti che la psicoanalisi ortodossa reputa fuorvianti, perché non ascrivibili al versante intrapsichico.
Il gruppo può diventare un efficace strumento per conoscere la relazione tra pazienti e contesto, nell’ottica di restituire a queste persone la facoltà di desiderare, di pensare e di scegliere, entro i limiti che ognuno di noi è chiamato ad identificare.
Gli utenti più giovani sembrano orientati a domandare lo sviluppo di una competenza a lavorare, cercando una valorizzazione della loro parte adulta che li emancipi dal sentirsi inutili fuori e protetti sino allo svalutazione tra le mura del Servizio.
Quelli più anziani, come Maddalena, una donna dotata di straordinario senso dell’umorismo, chiedono il riconoscimento di un’identità meno stereotipale. Questa simpatica signora è detta “la saggia” da coloro che la conoscono da tempo, all’interno del Centro. Ma la sua tendenza ad elargire consigli, forte di una esperienza che sfiora l’istituzionalizzazione, la imprigiona in un ruolo che circolarmente risponde alle attese configurate. Maddalena non può permettersi di dare spazio ai propri problemi, perché deve mostrarsi forte per tutti gli altri. I confronti in gruppo le stanno via via consentendo di aprirsi, di potersi permettere di chiedere, utilizzando un setting che mette in crisi la comunicazione ad una via, facilitando, di contro, il confronto dialogico.
In sintesi rintracciare differenze significa cominciare a pensare come utilizzarle, per esempio nell’ottica di ri-orientare le attività del CD utilizzando criteri che valorizzino domande. E’ possibile che l’ironia, l’esperienza, la capacità di sdrammatizzare di persone come Maddalena siano utilizzate strategicamente, ad esempio entro una funzione di raccordo tra i responsabili ed i fruitori delle attività volte a socializzare, a formare, a produrre?
Per ora si tratta di ipotesi da definire meglio. Il prosieguo del lavoro con il gruppo sta nel frattempo incontrando la volontà dei partecipanti di scrivere insieme su ciò che le discussioni condivise sollecitano a pensare ulteriormente.
“Non serve una cronaca”, dicevo loro l’ultima volta. “Non dovrebbe trattarsi di un riassunto”, aggiungo nella circostanza. Liliana, sorprendendomi, risponde: “potrebbe essere un resoconto”.
Un resoconto. Quello che a mia volta utilizzerò come verifica dell’intervento tramite il gruppo, per i committenti del Servizio.




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