Concretizzazione a discapito del
simbolico, cui andiamo incontro, inevitabilmente, quando resocontiamo.
Guarda caso una paziente che
incontro da circa due anni ha provato a comunicarmi qualcosa di importante,
recentemente. L’ha fatto attraverso il racconto di un sogno.
Lo riporto quindi per come mi è stato raccontato in seduta, insieme agli scambi verbali e alle costruzioni di senso
susseguenti. Inizio da una cospicua introduzione, per condividere il processo
psicoterapeutico e il momento relazionale nel quale viene a prodursi il sogno
stesso. Prima di addentrarmi, due precisazioni:
1 - considero il sogno
prospetticamente, un’occasione per riconsiderare quanto successo tra la
paziente e me, per connetterlo al presente e al futuro che si tratteggiano nell'analizzarlo
e nel condividerlo;
2 - non esiste alcuna interpretazione univoca di una produzione onirica, se ne sceglie
una (tra le infinite), per l’appunto, che serva a qualcosa.
Una rilettura del “prima” a partire da una produzione onirica
recente
Si tratta di una donna di 43 anni
che ha iniziato la consulenza con chi scrive nel 2010, seppure con un periodo
di interruzione risalente a circa un anno fa. Si era rivolta a me privatamente,
su invio di un’altra persona con cui avevo terminato il lavoro. Maria, questo
il nome (fittizio) della paziente in questione, si sentiva fortemente depressa, in una
situazione di impasse e insoddisfazione sociale e lavorativa. All'epoca viveva
con un uomo molto più in là negli anni rispetto alla sua età, con il quale, tra
l’altro, non aveva una vita sessuale soddisfacente. Ma il punto era un altro.
Si lasciava vivere in un rapporto di accondiscendenza apparente, mentre con
un’altra parte di sé cominciava a riconoscere l’angustia connessa alle pretese
e ai reiterati controlli di quest’uomo. Avvertiva cioè il peso dell’essere una
donna “di rappresentanza”, dell’obbligarsi a seguirlo nelle occasioni mondane
ed elitarie, entro la ristretta cerchia della sua fiera appartenenza massonica.
Si era lasciata andare a un consumo
di alcol sempre più frequente, forse per alleviare il disagio del sentirsi
costantemente fuori luogo, per apparire più spigliata, diluendo lo sconforto
del vedersi come l’ombra “profana” del suo esclusivista compagno. Sembrava aver
perso di vista una sua identità. Era stata sposata con un uomo che forse non aveva amato mai, per dirla
parafrasando un noto cantautore.
Dopo la fine del matrimonio aveva
smesso di lavorare (si occupava, con il titolare-marito, di uno Studio
commercialistico), oscillando tra l’essere una madre poco attenta (parole sue) e la ricerca di qualcosa che le sembrava
costantemente impalpabile. Figlia unica di un padre a sua volta alcolista e (prevalentemente) inoccupato e di una madre che talvolta esecrava per la sua
incrollabile oblatività, pareva ricalcare nelle sue relazioni, la
reciprocazione del cinismo abbandonico e della sacrificalità più indiscutibile.
Vittima e carnefice al contempo. Quando prevaleva l’identificazione con la
madre, si incastrava in relazioni con uomini persecutori, distanti e
irraggiungibili, per poi razionalizzare la tendenza a resistere stoicamente.
Giungeva quindi a disinvestire ogni aspetto della sua esistenza, demotivandosi
per poi ritirarsi sprezzantemente dai rapporti, come faceva suo padre quando
era preso dapprima da una malinconia autistica e in seguito dai fantasmi dei
suoi stordimenti rabbiosi.