martedì 15 gennaio 2013

L'occasione di un sogno...

La "povertà onirica" pare caratterizzare questo momento storico e sociale. Pochezza onirica quale assenza di desiderio nel sogno lucido della veglia. Esiguità che alcuni psicologi riscontrano durante le sedute e che può essere letta, simmetricamente, come sintomo di un’incapacità, da parte nostra, di invitare qualcuno a raccontare i propri sogni.
Concretizzazione a discapito del simbolico, cui andiamo incontro, inevitabilmente, quando resocontiamo.
Guarda caso una paziente che incontro da circa due anni ha provato a comunicarmi qualcosa di importante, recentemente. L’ha fatto attraverso il racconto di un sogno.
Lo riporto quindi per come mi è stato raccontato in seduta, insieme agli scambi verbali e alle costruzioni di senso susseguenti. Inizio da una cospicua introduzione, per condividere il processo psicoterapeutico e il momento relazionale nel quale viene a prodursi il sogno stesso. Prima di addentrarmi, due precisazioni: 
1 - considero il sogno prospetticamente, un’occasione per riconsiderare quanto successo tra la paziente e me, per connetterlo al presente e al futuro che si tratteggiano nell'analizzarlo e nel condividerlo; 
2 - non esiste alcuna interpretazione univoca di una produzione onirica, se ne sceglie una (tra le infinite), per l’appunto, che serva a qualcosa.


Una rilettura del “prima” a partire da una produzione onirica recente

Si tratta di una donna di 43 anni che ha iniziato la consulenza con chi scrive nel 2010, seppure con un periodo di interruzione risalente a circa un anno fa. Si era rivolta a me privatamente, su invio di un’altra persona con cui avevo terminato il lavoro. Maria, questo il nome (fittizio) della paziente in questione, si sentiva fortemente depressa, in una situazione di impasse e insoddisfazione sociale e lavorativa. All'epoca viveva con un uomo molto più in là negli anni rispetto alla sua età, con il quale, tra l’altro, non aveva una vita sessuale soddisfacente. Ma il punto era un altro. Si lasciava vivere in un rapporto di accondiscendenza apparente, mentre con un’altra parte di sé cominciava a riconoscere l’angustia connessa alle pretese e ai reiterati controlli di quest’uomo. Avvertiva cioè il peso dell’essere una donna “di rappresentanza”, dell’obbligarsi a seguirlo nelle occasioni mondane ed elitarie, entro la ristretta cerchia della sua fiera appartenenza massonica.
Si era lasciata andare a un consumo di alcol sempre più frequente, forse per alleviare il disagio del sentirsi costantemente fuori luogo, per apparire più spigliata, diluendo lo sconforto del vedersi come l’ombra “profana” del suo esclusivista compagno. Sembrava aver perso di vista una sua identità. Era stata sposata con un uomo che forse non aveva amato mai, per dirla parafrasando un noto cantautore.
Dopo la fine del matrimonio aveva smesso di lavorare (si occupava, con il titolare-marito, di uno Studio commercialistico), oscillando tra l’essere una madre poco attenta (parole sue) e la ricerca di qualcosa che le sembrava costantemente impalpabile. Figlia unica di un padre a sua volta alcolista e (prevalentemente) inoccupato e di una madre che talvolta esecrava per la sua incrollabile oblatività, pareva ricalcare nelle sue relazioni, la reciprocazione del cinismo abbandonico e della sacrificalità più indiscutibile. Vittima e carnefice al contempo. Quando prevaleva l’identificazione con la madre, si incastrava in relazioni con uomini persecutori, distanti e irraggiungibili, per poi razionalizzare la tendenza a resistere stoicamente. Giungeva quindi a disinvestire ogni aspetto della sua esistenza, demotivandosi per poi ritirarsi sprezzantemente dai rapporti, come faceva suo padre quando era preso dapprima da una malinconia autistica e in seguito dai fantasmi dei suoi stordimenti rabbiosi.