E’ vistosamente trasandata e
dimostra 15 anni in più di quelli che ha realmente (38).
Prima ancora che proferisca parola ho la sensazione di
avere di fronte il prototipo della perfetta donna depressa.
Le dico che abbiamo un’ora per
lavorare, invitandola a cominciare dalla prima cosa che le passa per la mente.
Mi dice che circa due settimane
prima del nostro attuale incontro il marito le ha detto di non amarla più, di
non provare più nulla nei suoi confronti. Ricorda che era il due gennaio del
corrente anno e sottolinea la sensazione di violenza di quella comunicazione,
entro un crescendo di accuse nei suoi riguardi, al termine del quale l’uomo
esce di casa sbattendo la porta. Mi colpisce la frase con cui connota il
vissuto di quel momento: è stato come un fulmine a ciel sereno.
Le chiedo quindi che fine abbia
fatto il marito, se da allora si siano parlati nuovamente o quantomeno rivisti,
al che R. chiarisce che l’uomo ha fatto ritorno alcune ore più tardi, senza
rivolgerle la parola.
Riflettiamo insieme sui nessi tra
quello che sembra un agìto provocatorio di adolescenziale memoria (l’uscire
furiosamente di casa dopo una litigata in famiglia per poi tornare facendo
l’offeso) ed il “fulmine a ciel sereno”. Ci chiediamo se quella serenità non
sia un modo per semplificare un assetto di rapporto specifico tra loro, più
prossimo al far finta che tutto andasse bene. Di solito chi provoca ha
intenzione di sovvertire il vissuto di essere schiacciato, di subire una qualche
forma di potere. Di lì quel modo violento di rovesciare la situazione a proprio
vantaggio.
In effetti R. si ritrova
nella lettura che costruiamo, mi dice che ha provato a cambiare suo
marito, (lo ripeterà più volte nel corso della seduta) perché a suo dire troppo
immaturo, a volte irresponsabile e propenso a prendere la vita con leggerezza e
sarcasmo. E si accorge di quanto poco regga la questione del fulmine a ciel
sereno quando le viene alla mente che più volte in passato, lui le abbia fatto
notare la propria trascuratezza, la scarsa attenzione che R., da molto
tempo, dedica al suo aspetto.
Ma è possibile cambiare qualcuno,
plasmarlo a propria immagine e somiglianza o secondo un modello di idealità,
senza innescare nell'altro la sensazione di essere manipolati, e quindi
aggressivamente infantilizzati?
Le chiedo quindi cos'è che le
piacesse di suo marito al tempo in cui si conobbero e R. fatica non poco
nel riconoscere che ne apprezzava proprio ciò che attualmente vorrebbe
correggere. In sintesi, il suo essere sia simpatico che canaglia. S.,
questo il nome dell’uomo, lavora come guardia giurata presso un ufficio
postale, mentre lei è addetta in un supermercato.
Quando approfondiamo la loro
attuale modalità di convivenza, a valle del “fulminante” episodio, sento il
collegamento tra quello che mi racconta ed il suo modo di presentarsi in
seduta, ammantata di una sofferenza silente ed al contempo inequivocabilmente
espressa da una sciatteria ed un’incuria pesantissime. Dice che a stento si parlano
ma che lui le appare irremovibile nel voler dar seguito a quella rottura. Ne
intuisce l’intenzione di andarsene definitivamente, da solo, con tutta
probabilità nella nuova casa dove inizialmente erano entrambi decisi a
trasferirsi. Non ci sono dialoghi, confronti tra loro, se non la ormai consueta
modalità del marito di aggredire verbalmente R., la quale da qualche tempo
vomita ripetutamente in bagno con la presenza dell’uomo in casa, entro quello
che leggo come un disperato gesto colpevolizzante.
Colpevolizzare: la pretesa
di un aiuto distanziante
Ho una reverie (mi riferisco qui al concetto di reverie per come lo intende, nel campo transferale bi-personale, Thomas Ogden) mentre
associo il suono della parola vomito all’odore, terribile, che R. emette
nella stanza, un misto di sudore acido, stantio, ed un’alitosi rispetto alla
quale ho più volte l’esigenza di distanziarmi da lei. Mi passa davanti agli
occhi, per qualche momento, l’immagine di una barbona che mi chiede l’elemosina
nel fatiscente contesto di una scalinata sporca e maleodorante, adiacente
l’ingresso di una stazione della metropolitana, situazione dalla quale provo a liberarmi repentinamente, porgendole qualche spiccio in nome della pietà per
poi liquidarmi.
Fuori da quella breve
onirizzazione, le restituisco il senso del suo vittimizzarsi, mettendolo in
rapporto alla “povertà” di parole che connota l’imparlabilità delle emozioni in
gioco in questo assetto relazionale fondato sulla pena, la colpevolizzazione e
la fuga impotente (lui in effetti le manda sms autocolpevolizzanti,
accusandosi, a debita distanza, della sofferenza della donna). Sulla scia delle
implicazioni nel nostro rapporto, le faccio notare che anche a me sta chiedendo
di toglierle il dolore che prova e nello stesso tempo di abbandonarla al suo
destino, dato che io non posso occuparmi di ridarle sostentamento e vitalità.
D’altra parte, come probabilmente
con una parte di sé ha compreso, noi due possiamo riflettere insieme su ciò che
le sta succedendo; a partire dal capirci qualcosa dell’attinenza tra il
vittimizzarsi, a valle del fallimento nel ricondurre a norma su suo marito, e
la difficoltà a costruire una relazione autentica, dove ci si possa
ri-conoscere. Ciò evidentemente a prescindere dall’esito, ossia lo stare o il
non stare insieme a lui.
In seguito rintracciamo una
genesi storica rispetto alla “scelta” di sentirsi derubata dell’affetto,
perdendo il possesso dell’amore dell’altro. I genitori di R. sono morti a
distanza di pochi anni, lasciandole un penoso senso di vuoto abbandonico.
Racconta di essersi dedicata molto a loro, prima alla madre, deceduta dopo il
suo matrimonio; poi, in particolare, al padre, a sua volta morto dopo una lunga
malattia. Ci viene in mente che possa aver dato per scontato l’appoggio
incondizionato di suo marito, pretendendolo. Ma ciò che le fa rabbia è
che S. (il marito) a quel tempo non abbia accennato nemmeno a lamentarsi, rispetto
alla possibilità di essersi sentito messo in disparte.
Mentre la invito a tornare con la
mente alla situazione del marito al tempo della grave malattia del padre (morbo
di Alzheimer aggravato, secondo R., da una depressione reattiva[1] alla
morte della moglie), ricorda che S. aveva perso il suo precedente lavoro
di elettricista presso un’azienda in fallimento. Si tratta di due eventi che si
sovrappongono temporalmente.
Prova rimorso per aver
sottovalutato le plausibili difficoltà del marito in quel periodo, la invito
quindi a riflettere su cosa significhi stare vicino a qualcuno, senza domandare
e domandarsi entro quali attese si configuri. Tra loro sembrano sussistere
richieste implicite, scontate, ancora una volta carenti di domande e risposte
parlate. R. riconosce anche che stare vicino al padre l’ha riempita di
frustrazione, perché ora sente di aver agito senza strumenti, in nome della
sacrificalità.
A fine seduta, mentre accenna al
fatto che il suo lavoro la soddisfi, aggiunge che in questo periodo non se la
sente di andarci. E’ troppo provata da quanto le sta succedendo. Le capita di
distrarsi guardando fuori, nella speranza di intravedere S. davanti
all'ingresso del supermercato, come quando lui veniva a prenderla.
“Sul filo di lana” dell’ora che
termina mi chiede di scrivere al suo medico di base, affinché una diagnosi
specifica prolunghi il periodo di malattia che ha già preso.
Ho emozioni forti e confondenti,
poi estraggo mentalmente quell'immagine cui facevo riferimento in precedenza,
che torna condensando il tema emozionale del chiedere aiuto (senza parole,
tendendo la mano) e del tenere a distanza. Lo connetto a quanto poco prima
dicevamo circa il pretendere la vicinanza senza mai sentirsi davvero insieme.
Tengo l’emozione del momento e
dico a R. che ne avremmo riparlato la settimana successiva.
Prendiamo un appuntamento: stesso
giorno, stessa ora.
Diagnosi, fatti ed emozioni
R. torna per la seconda
seduta, durante la quale approfondiamo le questioni toccate nella prima. E’
molto più curata nell'aspetto e la puzza di sudore stavolta è tollerabile (si
tratta anche di un aspetto sintomatico di problemi ormonali). Sta iniziando a
parlare con S., avanzando l’ipotesi che forse anche a lei non vada più di
starci insieme; perlomeno non con le modalità con cui sono andati avanti sin
ora. Accenna a una questione importante: a causa dei suoi problemi ormonali in
passato non sono riusciti ad avere un figlio. Pensa che il risentimento da parte
del marito nei suoi confronti possa avere a che fare con questo; ma le faccio
notare che sta percorrendo la falsariga del senso comune, lungo una strada a
due tappe: dapprima un fatto, poi l’emozione corrispondente.
Ed è ancora nella pura
speculazione, perché la sua è una lettura che scaturisce dal pensiero magico:
quello che indovina il mondo interno dell’altro. S. non le ha mai detto di
avercela con lei per questo. Le ha detto che è stanco di subire le sue
decisioni.
Stiamo sulla questione e quando
R., ancora sul finire della seduta, torna con la mente al suo lavoro, le
dico che ho scritto la diagnosi da presentare al medico di base, al fine di
prolungare il periodo di malattia. Episodio depressivo, con i 5 sintomi
corrispondenti, come “da manuale” ICD-10. Le faccio leggere il foglio,
chiedendole che impressione ne tragga, anche alla luce di quanto ci dicevamo
sui “fatti” e le emozioni.
Risponde che quello che c’è
scritto sul referto diagnostico la descrive come “una malata”.
La invito a riflettere sulla
connessione tra quella diagnosi e la sua tendenza attuale a tenere a distanza
tutto ciò che esula dal colpevolizzare l’altro, perché servirsi di quel foglio
significherà legittimare lo schema relazionale che stiamo mettendo criticamente
in discussione; significherà disfarsi del lavoro fatto con me sino ad oggi,
spingendo via un pensiero sulle emozioni che concernono noi due e la sua vita
fuori dal setting. E le dico che finirà per isolarsi, sottraendo risorse a se
stessa, perché dalle sue parole si capisce invece che il lavoro, i colleghi, le
persone che incontra al supermercato sono importanti.
A lei la scelta.
R. è commossa, ha le lacrime
agli occhi. Prende il referto e mi dice che ci penserà. Prima di andarsene mi
stringe la mano con un calore diverso, estraneo. Nuovo.
Abbiamo un appuntamento per
la settimana successiva.
[1] La
depressione di R., alla luce di quanto riporta, sembra agita in balia
dell’ombra dell’oggetto interno padre; figura a sua volta abbandonata dalla
moglie deceduta e quindi “costretta” a deprimersi, entro uno schema simbolico
di identificazione transgenerazionale, ove le emozioni susseguono ai fatti.
Bibliografia:
Ogden T. H. (1999), Reverie e interpretazione, Roma: Astrolabio
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