venerdì 28 dicembre 2012

Un fulmine a ciel sereno

R. entra nella stanza con il respiro affannoso, con gesti lenti chiude la porta alla sue spalle, mentre la accolgo e la invito a sedersi. Altrettanto fiaccamente si toglie il soprabito, rallentata dall'obesità e da una sorta di gravosa, fantasmatica ineluttabilità che leggo nei suoi movimenti.
E’ vistosamente trasandata e dimostra 15 anni in più di quelli che ha realmente (38).
Prima ancora che proferisca parola ho la sensazione di avere di fronte il prototipo della perfetta donna depressa.
Le dico che abbiamo un’ora per lavorare, invitandola a cominciare dalla prima cosa che le passa per la mente.
Mi dice che circa due settimane prima del nostro attuale incontro il marito le ha detto di non amarla più, di non provare più nulla nei suoi confronti. Ricorda che era il due gennaio del corrente anno e sottolinea la sensazione di violenza di quella comunicazione, entro un crescendo di accuse nei suoi riguardi, al termine del quale l’uomo esce di casa sbattendo la porta. Mi colpisce la frase con cui connota il vissuto di quel momento: è stato come un fulmine a ciel sereno.
Le chiedo quindi che fine abbia fatto il marito, se da allora si siano parlati nuovamente o quantomeno rivisti, al che R. chiarisce che l’uomo ha fatto ritorno alcune ore più tardi, senza rivolgerle la parola.
Riflettiamo insieme sui nessi tra quello che sembra un agìto provocatorio di adolescenziale memoria (l’uscire furiosamente di casa dopo una litigata in famiglia per poi tornare facendo l’offeso) ed il “fulmine a ciel sereno”. Ci chiediamo se quella serenità non sia un modo per semplificare un assetto di rapporto specifico tra loro, più prossimo al far finta che tutto andasse bene. Di solito chi provoca ha intenzione di sovvertire il vissuto di essere schiacciato, di subire una qualche forma di potere. Di lì quel modo violento di rovesciare la situazione a proprio vantaggio.
In effetti R. si ritrova nella lettura che costruiamo, mi dice che ha provato a cambiare suo marito, (lo ripeterà più volte nel corso della seduta) perché a suo dire troppo immaturo, a volte irresponsabile e propenso a prendere la vita con leggerezza e sarcasmo. E si accorge di quanto poco regga la questione del fulmine a ciel sereno quando le viene alla mente che più volte in passato, lui le abbia fatto notare la propria trascuratezza, la scarsa attenzione che R., da molto tempo, dedica al suo aspetto.
Ma è possibile cambiare qualcuno, plasmarlo a propria immagine e somiglianza o secondo un modello di idealità, senza innescare nell'altro la sensazione di essere manipolati, e quindi aggressivamente infantilizzati?
Le chiedo quindi cos'è che le piacesse di suo marito al tempo in cui si conobbero e R. fatica non poco nel riconoscere che ne apprezzava proprio ciò che attualmente vorrebbe correggere. In sintesi, il suo essere sia simpatico che canaglia. S., questo il nome dell’uomo, lavora come guardia giurata presso un ufficio postale, mentre lei è addetta in un supermercato.
Quando approfondiamo la loro attuale modalità di convivenza, a valle del “fulminante” episodio, sento il collegamento tra quello che mi racconta ed il suo modo di presentarsi in seduta, ammantata di una sofferenza silente ed al contempo inequivocabilmente espressa da una sciatteria ed un’incuria pesantissime. Dice che a stento si parlano ma che lui le appare irremovibile nel voler dar seguito a quella rottura. Ne intuisce l’intenzione di andarsene definitivamente, da solo, con tutta probabilità nella nuova casa dove inizialmente erano entrambi decisi a trasferirsi. Non ci sono dialoghi, confronti tra loro, se non la ormai consueta modalità del marito di aggredire verbalmente R., la quale da qualche tempo vomita ripetutamente in bagno con la presenza dell’uomo in casa, entro quello che leggo come un disperato gesto colpevolizzante.


Colpevolizzare: la pretesa di un aiuto distanziante

Ho una reverie (mi riferisco qui al concetto di reverie per come lo intende, nel campo transferale bi-personale, Thomas Ogden) mentre associo il suono della parola vomito all’odore, terribile, che R. emette nella stanza, un misto di sudore acido, stantio, ed un’alitosi rispetto alla quale ho più volte l’esigenza di distanziarmi da lei. Mi passa davanti agli occhi, per qualche momento, l’immagine di una barbona che mi chiede l’elemosina nel fatiscente contesto di una scalinata sporca e maleodorante, adiacente l’ingresso di una stazione della metropolitana, situazione dalla quale provo a liberarmi repentinamente, porgendole qualche spiccio in nome della pietà per poi liquidarmi.
Fuori da quella breve onirizzazione, le restituisco il senso del suo vittimizzarsi, mettendolo in rapporto alla “povertà” di parole che connota l’imparlabilità delle emozioni in gioco in questo assetto relazionale fondato sulla pena, la colpevolizzazione e la fuga impotente (lui in effetti le manda sms autocolpevolizzanti, accusandosi, a debita distanza, della sofferenza della donna). Sulla scia delle implicazioni nel nostro rapporto, le faccio notare che anche a me sta chiedendo di toglierle il dolore che prova e nello stesso tempo di abbandonarla al suo destino, dato che io non posso occuparmi di ridarle sostentamento e vitalità.
D’altra parte, come probabilmente con una parte di sé ha compreso, noi due possiamo riflettere insieme su ciò che le sta succedendo; a partire dal capirci qualcosa dell’attinenza tra il vittimizzarsi, a valle del fallimento nel ricondurre a norma su suo marito, e la difficoltà a costruire una relazione autentica, dove ci si possa ri-conoscere. Ciò evidentemente a prescindere dall’esito, ossia lo stare o il non stare insieme a lui.
In seguito rintracciamo una genesi storica rispetto alla “scelta” di sentirsi derubata dell’affetto, perdendo il possesso dell’amore dell’altro. I genitori di R. sono morti a distanza di pochi anni, lasciandole un penoso senso di vuoto abbandonico. Racconta di essersi dedicata molto a loro, prima alla madre, deceduta dopo il suo matrimonio; poi, in particolare, al padre, a sua volta morto dopo una lunga malattia. Ci viene in mente che possa aver dato per scontato l’appoggio incondizionato di suo marito, pretendendolo. Ma ciò che le fa rabbia è che S. (il marito) a quel tempo non abbia accennato nemmeno a lamentarsi, rispetto alla possibilità di essersi sentito messo in disparte.
Mentre la invito a tornare con la mente alla situazione del marito al tempo della grave malattia del padre (morbo di Alzheimer aggravato, secondo R., da una depressione reattiva[1] alla morte della moglie), ricorda che S. aveva perso il suo precedente lavoro di elettricista presso un’azienda in fallimento. Si tratta di due eventi che si sovrappongono temporalmente.
Prova rimorso per aver sottovalutato le plausibili difficoltà del marito in quel periodo, la invito quindi a riflettere su cosa significhi stare vicino a qualcuno, senza domandare e domandarsi entro quali attese si configuri. Tra loro sembrano sussistere richieste implicite, scontate, ancora una volta carenti di domande e risposte parlate. R. riconosce anche che stare vicino al padre l’ha riempita di frustrazione, perché ora sente di aver agito senza strumenti, in nome della sacrificalità.
A fine seduta, mentre accenna al fatto che il suo lavoro la soddisfi, aggiunge che in questo periodo non se la sente di andarci. E’ troppo provata da quanto le sta succedendo. Le capita di distrarsi guardando fuori, nella speranza di intravedere S. davanti all'ingresso del supermercato, come quando lui veniva a prenderla.
“Sul filo di lana” dell’ora che termina mi chiede di scrivere al suo medico di base, affinché una diagnosi specifica prolunghi il periodo di malattia che ha già preso.
Ho emozioni forti e confondenti, poi estraggo mentalmente quell'immagine cui facevo riferimento in precedenza, che torna condensando il tema emozionale del chiedere aiuto (senza parole, tendendo la mano) e del tenere a distanza. Lo connetto a quanto poco prima dicevamo circa il pretendere la vicinanza senza mai sentirsi davvero insieme.
Tengo l’emozione del momento e dico a R. che ne avremmo riparlato la settimana successiva.
Prendiamo un appuntamento: stesso giorno, stessa ora.

Diagnosi, fatti ed emozioni

R. torna per la seconda seduta, durante la quale approfondiamo le questioni toccate nella prima. E’ molto più curata nell'aspetto e la puzza di sudore stavolta è tollerabile (si tratta anche di un aspetto sintomatico di problemi ormonali). Sta iniziando a parlare con S., avanzando l’ipotesi che forse anche a lei non vada più di starci insieme; perlomeno non con le modalità con cui sono andati avanti sin ora. Accenna a una questione importante: a causa dei suoi problemi ormonali in passato non sono riusciti ad avere un figlio. Pensa che il risentimento da parte del marito nei suoi confronti possa avere a che fare con questo; ma le faccio notare che sta percorrendo la falsariga del senso comune, lungo una strada a due tappe: dapprima un fatto, poi l’emozione corrispondente.
Ed è ancora nella pura speculazione, perché la sua è una lettura che scaturisce dal pensiero magico: quello che indovina il mondo interno dell’altro. S. non le ha mai detto di avercela con lei per questo. Le ha detto che è stanco di subire le sue decisioni.
Stiamo sulla questione e quando R., ancora sul finire della seduta, torna con la mente al suo lavoro, le dico che ho scritto la diagnosi da presentare al medico di base, al fine di prolungare il periodo di malattia. Episodio depressivo, con i 5 sintomi corrispondenti, come “da manuale” ICD-10. Le faccio leggere il foglio, chiedendole che impressione ne tragga, anche alla luce di quanto ci dicevamo sui “fatti” e le emozioni.
Risponde che quello che c’è scritto sul referto diagnostico la descrive come “una malata”.
La invito a riflettere sulla connessione tra quella diagnosi e la sua tendenza attuale a tenere a distanza tutto ciò che esula dal colpevolizzare l’altro, perché servirsi di quel foglio significherà legittimare lo schema relazionale che stiamo mettendo criticamente in discussione; significherà disfarsi del lavoro fatto con me sino ad oggi, spingendo via un pensiero sulle emozioni che concernono noi due e la sua vita fuori dal setting. E le dico che finirà per isolarsi, sottraendo risorse a se stessa, perché dalle sue parole si capisce invece che il lavoro, i colleghi, le persone che incontra al supermercato sono importanti.
A lei la scelta.
R. è commossa, ha le lacrime agli occhi. Prende il referto e mi dice che ci penserà. Prima di andarsene mi stringe la mano con un calore diverso, estraneo. Nuovo.
Abbiamo un appuntamento per la settimana successiva.



[1] La depressione di R., alla luce di quanto riporta, sembra agita in balia dell’ombra dell’oggetto interno padre; figura a sua volta abbandonata dalla moglie deceduta e quindi “costretta” a deprimersi, entro uno schema simbolico di identificazione transgenerazionale, ove le emozioni susseguono ai fatti.

Bibliografia:

Ogden T. H. (1999), Reverie e interpretazione, Roma: Astrolabio

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