venerdì 13 gennaio 2012

Cronicità: etimo, storia e modello medico

Pubblico la prima parte di un articolo inerente il problema della "cronicità" all'interno dei Servizi di Salute Mentale.
Si tratta di una questione complessa, che prende forma attorno alla "pretesa" contestuale di guarire i pazienti affetti da gravi psicopatologie. Mi propongo di riflettere sulle alternative possibili di intervento psicologico con tale tipologia di pazienti, a partire da una ri-costruzione storica e clinica del concetto di cronicità.

Se si parla di cronicità fantasmaticamente sussiste l’attesa di un esito.

Nel mondo greco, ereditata dalle civiltà antiche, era predominante una concezione ciclica del tempo, probabilmente indotta dall’osservazione della regolarità dei moti degli astri o della ripetizione immutabile delle stagioni.
In effetti, quella ciclica è nell’antichità la più diffusa concezione della temporalità. Come le stagioni si susseguono e ritornano con ritmica cadenza, così le generazioni umane e le loro attività si succedono e ritornano con regolarità. È l’idea che troviamo già in Omero (VIII secolo a. C.): “Come quelle delle foglie sono le generazioni degli uomini; le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva feconda le produce al ritorno della primavera; così le generazioni degli uomini: nasce una, l’altra dilegua” (Iliade VI, 146-149). Il divenire temporale viene raffigurato da una ruota: tutto a suo tempo ritorna, tutta la storia è un eterno ritorno. Tale concezione permette all’uomo arcaico di mitigare la propria impotenza innanzi all’irreversibilità del tempo, alla distruzione irreparabile delle cose, al perire definitivo dei viventi.
Chronos, nella cultura ellenica dell’epoca, è la parola che connota la dimensione temporale specifica di cui sopra, espressione di un tempo univoco e predeterminato, dove la ciclicità è la cornice entro cui ogni epoca sorge e svanisce. Nel ciclo, alla stregua dell’iconografia del serpente che si morde la coda, l’avvicendarsi delle ere non ha una finalità, ma semplicemente una continuità tra fine ed inizio, quale inesorabile ripetizione del già noto.
Sarà poi la cultura giudaico-cristiana ad orientare linearmente il tempo, rendendolo vettore su cui si posizionano eventi irripetibili (si pensi al lessema “cronologia”, ad esempio, o alla stessa collocazione degli accadimenti a partire dalla nascita di Cristo).
Ma il concetto di cronicità (dal greco chronos) appare indissolubilmente embricato all’etimo di origine ellenica, condensando quindi regolarità, uniformità e memoria (quale idea di ritorno); ed ammantandosi perlopiù di attributi mortiferi e distruttivi, se si considera un altro processo di condensazione culturale: quello che - da fonti iconografiche e letterarie - confonde il tempo chronos con il dio-titano Kronos.
Nel mito esiodeo (Teogonia di Esiodo, circa 700 a.C.) Kronos è una figura chiave nell’ordine genealogico della stirpe divina. Egli, assieme ai suoi fratelli (Centimani, Ciclopi, Titani), prende forma da Gaia ed Urano, laddove il secondo è generato dalla prima per poi diventarne fecondo ed incestuoso congiunto. Ma Urano odia i propri figli, li nasconde nel seno di Gaia, della terra. Kronos, il dio “dai torti pensieri”, si ribella e d'accordo con Gaia decide di evirare suo padre. Viene la notte: Gaia consegna al figlio una falce dai denti aguzzi. Giunge Urano. Appena e' steso, il figlio gli taglia i genitali con la falce e li getta via. Dalle gocce che sprizzano cruente, accolte da Gaia, nascono le Erinni, i Giganti e le Ninfe. Il membro va a finire nel mare. Attorno ad esso si crea una bianca spuma. Da questa, nasce Venere.
In seguito, con la progenie di Rea e Kronos (ancora un legame incestuoso, Rea è infatti la sorella di Kronos), si ripete l'insulto della nascita: questa mitologia perenne del padre minacciato dal figlio. Come Urano, Kronos divora i propri figli quando, dal ventre di Rea, giungono alle sue ginocchia. Così, al momento di partorire Zeus, Rea va a Creta e nasconde Zeus in una grotta. A Kronos consegna una pietra, ingannevolmente avvolta in fasce. Kronos inghiotte il sasso, credendo sia l'ennesimo figlio. Una volta cresciuto Zeus decide di contrastare il dominio paterno e, attraverso una lunga lotta, si appresta a porre ordine nel mondo. Il momento culminante di questa lotta e' la guerra fra i Titani e gli Olimpi, la cosiddetta Titanomachia.

Il mito del titano Kronos si presta ad una molteplicità di interpretazioni, cui la psicoanalisi fornisce modelli atti ad estrarre senso. Si pensi ad esempio alla fantasmatica edipica e alla simmetrizzazione ritorsiva che tenta di anticiparla (Kronos, il divoratore infanticida). La detronizzazione del titano ad opera del figlio Zeus è infatti conseguenza di una strategia salvifica che interrompe il cannibalismo generazionale di Kronos, il quale ha in precedenza divorato, agendo una distruttiva coazione a ripetere, tutti gli altri suoi discendenti.
Ma oltre all’inversione del pasto totemico e ai rimandi eucaristici, quel che colpisce, sul piano simbolico, è la negazione violenta del futuro, il tentativo-filicidio di riciclare all’infinito il possesso di un tempo che, avendo già tagliato via il passato (l’evirazione di Urano da parte di Kronos), assume un’autoreferenzialità totalizzante.

L’esito non può essere che un’azione volta a rendere reversibile tale possesso. I miti propongono moniti, modalità rappresentative dell’agire che scongiurino la pericolosità umana.
La cronicità ipostatizza quindi un tempo eternamente minacciante, cristallizzato nella ripetizione di un processo morboso e divoratore.
Se teniamo presenti questi aspetti appare meno casuale che intorno all’anno 80 a. C. il secolare sedimento emozionale di Chronos-Kronos si coniughi con la prima sistematica classificazione delle malattie sotto il profilo evolutivo, distinte da Asclepiade di Bitinia (129 a. C. – 40 a. C.) entro la duplice categorizzazione di “acute” e “croniche” (classificazione ripresa e sviluppata in seguito dall’allievo Celio Aureliano).
Eppure quando il lessema cronica segue la parola malattia reversibilità ed irreversibilità si fondono in un ossimoro (malattia cronica). Il concetto di malattia deve infatti essere inteso come status e condizione potenzialmente reversibile attraverso l'applicazione di una terapia. E la cronicità mina a priori l’esito della guarigione, esito atteso che permea il senso dell’applicazione del modello medico.

Acuzie e cronicità, a distanza di oltre due millenni da Asclepiade, sono termini che designano la pretesa di curabilità/incurabilità del “malato mentale”. Ciò avviene in special modo all’interno di un contesto, il SPDC, dove si tende ancora a decontestualizzare l’individuo, a rendere subordinata alla psichiatria – quindi al modello medico – una funzione psicologica in grado di dare senso alle crisi nei sistemi di convivenza. Crisi di cui il paziente ricoverato rappresenta la dimensione sintomatica.
Funzione psicologica che consentirebbe, ancor prima, di guardare alla cronicità quale organizzatore relazionale che circolarizza l’attesa di ricondurre a norma l’individuo e la sconferma che ne deriva dal persistere della malattia; e di conseguenza del ricovero. Si tratta di un processo che, incistandosi, diviene perverso, richiamando l’immagine del serpente che si morde la coda; quella circolarità inesorabile di cui si scriveva più su ma senza nemmeno la speranza, come nel mito di Kronos, di un’azione che ne mini l’ineluttabilità.
La conseguenza inattesa è che in un SPDC, ad esempio, nonostante le norme che regolamentano i limiti di tempo del ricovero, alcuni pazienti tornano ciclicamente, fino ad agire una dipendenza priva di obiettivi, specularmente all’infantilizzazione subita. La deriva familista è tangibile: chi scrive ripensa alla propria esperienza, seppur breve, all’interno di un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Albano Laziale. Lì vi sono casi di persone che dopo anni di ricoveri sistematici considerano il Servizio una casa. Ci si è invecchiati insieme agli operatori.

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