lunedì 23 marzo 2020

Vecchi(a)



Tra la fine degli anni 70 e l'inizio del decennio successivo ero un bambino. Durante le vacanze estive ero solito passare più di un mese in Abruzzo con i miei nonni. Poche anime in uno sperduto paese nel cuore dei monti della Laga. Mi capitava spesso di sottrarmi al rigido controllo degli adulti. Inventavo scuse che la mia vecchia, in particolare, era solita bere. Poi come potevo raggiungevo qualcuno dei pochi, giovani pastori sparsi sui bordi delle “coste”. Giù, poco fuori dal bosco di faggi, abeti e querce. Oppure su, alle pendici della montagna. Sapevano suonare i fili d’erba, zufolando magicamente. Parlavano poco o nulla, sforzandosi con generosità di farsi capire, addolcendo quel dialetto spigoloso e cantilenante, nel quale potevi scorgere assonanze al francese. Quando riuscivo a stare di più, dimenticandomi il trascorrere del tempo, raccontavano storie di streghe e lupi mannari. “Se scappi e sali le scale ti puoi salvare…”. “Ma è molto difficile, invece, sfuggire all'invidia e all'occhio cattivo”. Le streghe, si diceva, entravano nottetempo nelle stalle, intrecciando con maestria le criniere dei cavalli che al mattino i proprietari trovavano sudati e in agitazione. Si insinuavano, queste strane donne selvagge, nel cuore delle case, sottraendo i lattanti per diletto. Giocavano a lanciarseli, beffandosi forse del senso conformista della maternità, per poi rimetterli nelle culle. Figlie dimenticate e fedeli solo alla Selva, madri di un atavico desiderio di svincolarsi dalla vita comune, non avrebbero mai vissuto l'esperienza della filiazione. Nessuna discendenza dalla loro linea di sangue. Di lì, forse, quel dissacrante svago.
Quando tornavo eccitato e nervoso mia nonna mi chiamava a sé. "Hai l’occhio cattivo, oh lo fije mì. Vì qua che nonna te lo leva". Con gesti solenni prendeva un piatto da cucina per colmarlo d’acqua. Inzuppava poi due dita nell'olio e ve lo colava, recitando impercettibili formule che sembravano enormemente misteriose. Le gocce gialloverdastre quasi esplodevano a contatto con l'acqua. "Hai visto? Eccolo, eccolo".  "Che dici nonna, perché parli sotto voce"? "È un segreto, non te lo posso dire". Quando l'olio smetteva di spandersi, rimanendo compatto per una mera questione chimica, il rito terminava. Il male era vinto. E con esso la mia esuberanza. 



Ecco un ricordo d'infanzia che spesso mi sovviene. Come ora, mentre penso a cosa significhi per me "vecchio". "Vecchia", anzi. Preferisco coniugare al femminile perché donna è stata chi si è presa cura di me. Più degli uomini. Almeno per un lungo periodo della mia crescita. La nonna di cui scrivo è ancora viva. Le devo molto. Il fatto che sia riuscito a laurearmi, per esempio. Studiavo a casa sua, a pochi metri dalla facoltà di psicologia. San Lorenzo, nel cuore di quella Roma popolare che ho sempre amato fino alla commozione.

Oggi la mia vecchia è quasi novantenne, vive con la badante. Parlarci al telefono è una mezza impresa. Sente poco e ti sovrasta di parole. E' un fiume in piena che tracima fangose lamentele di acciacchi. Ma chissà quando la rivedrò, voglio farle sentire che ci sono.


Dovremmo ricordarci dei vecchi, il coronavirus pare non averceli troppo in simpatia. E nemmeno la società ossessionata dalla produttività in cui viviamo. Forse si dimentica un dato significativo. L'età media in Italia è di 44, 9 anni. Più del 35% del Paese supera i 65. Insomma, non siamo più giovani nemmeno noi e se lo siamo ancora smetteremo a breve. Senza accorgercene, perché come dice Tolstoj la vecchiaia è la più inattesa tra tutte le cose che possono capitare ad un uomo. 

Ho conosciuto il più importante tra i miei maestri quando era già piuttosto in là con gli anni. Psicoanalista di straordinario spessore umano e professionale, ha fatto la storia della disciplina in Italia. Privatamente, con i colleghi suoi allievi, l'ho sempre chiamato affettuosamente il Vecchio. Era il mio modo di de-mitizzarlo, di renderlo nominabile senza sentirmene schiacciato. Si capiva comunque che il modo in cui lo dicevo malcelava un grande rispetto. L'esperienza si misura in anni e quell'uomo ne aveva, ne ha da vendere. Da tramandare, anzi. Man mano ci siamo voluti bene sul serio, ovviamente senza dircelo mai apertamente.  Certe cose si capiscono, non c'è bisogno di parole. Mi inorgoglisce la sua stima nei miei riguardi. Lo considero, in senso ampio, un padre.
Mi riamane più difficile invece, dare della vecchia a mia madre. Ma per gli stessi motivi, paradossalmente. Non la vedo da tanto, se non in video-chiamata. Ne ho percepito la tristezza qualche giorno fa, tra le pieghe tonali della voce. Non me lo direbbe mai per non appesantirmi il cuore. Non è sola ma sente nostalgia, per la sua unica nipote soprattutto.
Per arrivare all'alba non c'è altra via che la notte, mamma. Tieniti viva, ci rivedremo presto.


Fatevi sentire, non solo per colmare i vuoti dei vostri giorni. Fatelo avendo a mente a chi sa gioire per molto meno di voi.






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