venerdì 13 marzo 2020

L'amore ai tempi del coronavirus: lettera aperta al figlio che verrà.

Caro Diego,

tra due mesi sarai dei nostri, ma nascerai nell'anno più nefasto dal dopoguerra ad oggi. Ci penso, sai, a questa strana sovrapposizione di vita e di morte. Mentre scrivo i contagi da coronavirus hanno superato i 13000 casi; i morti sono più di mille. Pare sacrilego dire, oggi, che qualcuno sta venendo al mondo; ma non voglio dimenticarmene. Non adesso.
Siamo chiusi in casa da quasi una settimana. Il tempo sembra scorrere più lentamente e l'angoscia del sospendere le proprie consuetudini, talvolta, dilaga. In quei momenti ripenso a cosa abbiamo costruito negli anni, come comunità e in qualità di uomini. Inorridisco e ripiego su me stesso. Mi domando: e tu? Tu, Fabrizio, che cosa hai fatto? Mi rispondo senza parole che ho vissuto di lavoro, di emozioni, quelle delle persone che ho incontrato e che hanno evocato, contattato, trasformato le mie. E viceversa. Una relazione psicoterapeutica può cambiarti davvero. Non sono più lo stesso di 15 anni fa e nemmeno quello di ieri. Quante storie ho vissuto. Da questo punto di vista mi sento ricco. C'ho provato, sempre, a dare il meglio. A dare una mano, a guardarmi allo specchio senza provare il ribrezzo che nutrivo per me stesso, tanti anni fa.
Sostengo, spesso con chi incontro, che non serve cambiare il mondo, perché di mondi ne esistono infiniti e ognuno di noi può fare piccole cose per i propri piccoli mondi. Eppure provo una sensazione di inadeguatezza, adesso. Di smarrimento e di vergogna. Il pianeta su cui viviamo è comunque Uno. In nome del riconoscimento dei miei limiti, o del mio egoismo, me ne sono dimenticato. Non me ne sono curato. Forse nessuno di noi se ne è davvero reso conto, proprio nell'idea di infinito. Anzi, di infinite risorse. Abbiamo continuato a depredare, a tirare dritti entro la nicchia dei propri tornaconti. Individuali, comunque, che fossimo persone, nazioni, aziende o multinazionali. Ognuno per sé, figlio mio. Ognuno per sé.
Come ora. Chiusi in casa. Ognuno per sé. Singolarità alla stregua di chi, diceva De Andrè, può "permettersi il lusso della solitudine". Me lo posso consentire, questo sì. La famiglia di cui farai parte può tenere botta. Potere Diego, potere. Quello economico, in primis. Soldi del cazzo accumulati nel corso degli anni. E distorsioni nel simbolizzarne la presunta erosione. Mi passa per la mente che se continua così ne avremo molti meno. Poi però mi ricordo di Lucia, l'ho sentita al telefono proprio ieri. Licenziata da un negozio di abbigliamento in un centro commerciale qua vicino. Dopo anni di ricerca, tre figli a carico e un ex marito poco disposto a darle un aiuto. E così via per tanti, per troppi. E' necessario, certo, stare a casa. Prendersi la responsabilità di preservare la salute, altrui e propria. Ma anche dietro al bene, come un giorno capirai, si annida il male. Ha la faccia dell'opportunismo, della demagogia, dei demiurghi della finanza. E nella fattispecie ha le sembianze di imprenditori cui non conviene tenersi dipendenti fermi, due, tre o quattro settimane che siano. Mi dispiace, ma è necessario. Ordini superiori, il decreto del Governo parla chiaro.
Chiudere tutto, sono d'accordo. Ma con quali prospettive? Se ci dimentichiamo del futuro alimentiamo la già imperante tendenza egoistica. Vivere alla giornata concerne ancora una volta l'occuparsi solo di sé.
Mi mancano le persone che non posso vedere faccia a faccia. In compenso tua sorella è maledettamente gioiosa in questi giorni. Ha l'opportunità di stare in una triade che normalmente si ricompone solo per un tempo sporadico. Mamma, papà e Anna. Mi correggo: mamma con dentro te, papà e Anna. Siamo già quattro, seppure non possiamo vedere la tua faccia. Non vediamo l'ora di conoscerti piccolo mio. Speriamo che dopo la metà di maggio, quando sarai pronto a stare in questo strano, lurido mondo, gli ospedali saranno meno vessati dall'urgenza di chi sta male. Tu rappresenti la speranza che si possa ricominciare in modo diverso. Sei l'amore ai tempi del coronavirus. Mai come in questi momenti mi sono chiesto cosa voglia dire questa parola. La più abusata e interrogata lungo il continuum che unisce arte, poesia, musica, religione, filosofia, psicologia...Amore. Un tempo mi faceva ribrezzo quasi più di me. Oggi credo che voglia dire continuare a occuparsi di qualcuno per andare in una direzione che abbia senso per la convivenza. Riguarda il pensare con cura a chi non diamo per scontato, per fare qualcosa insieme. Per andare in una direzione sostenibile. Per smettere di essere monadi, per sentire la mancanza di chi non c'è, onorandone la memoria o progettando il giorno del ricongiungimento.
Ecco, la mancanza di chi non c'è. Quando pensiamo le assenze finiamo per desiderare. E l'amore è la declinazione più alta della capacità di desiderare di non essere soli. Perché non ci bastiamo più. Questo momento storico ce lo sta mettendo davanti al muso. Re-imparare la solitudine per incontrare davvero l'altro. Lo faremo con te, figlio mio. E tu, tu, uomo che sarai, lo farai a tua volta.
E' quel che spero per te. Per il mondo che verrà.

Con amore,
papà.


Nessun commento:

Posta un commento