martedì 23 gennaio 2018

Dio e la religiosità in psicoterapia: alcune riflessioni.

Viviamo radicati in una profonda, millenaria cultura cattolica. Asserzione banale, certo; ma lo teniamo presente quando, ad esempio, lavoriamo come psicologi? Ridurre la tematica della fede e della religiosità a questioni di poco conto è una leggerezza che può anche tradursi nella chiusura unilaterale di un rapporto psicoterapico, soprattutto se la persona che abbiamo in consulenza continua a parlarcene o ad alludervi ripetutamente.


Più o meno tutti abbiamo attraversato momenti fusionali con una rappresentazione di Dio ereditata da indottrinamenti familiari ed ecclesiastici. Siamo passati dal credere a tutto al sollevare dubbi, perplessità; sino ad interrogarci e al chiedere numi circa l'utilità dei dogmi, gli stessi che uccidono le domande con risposte che non consentono alcuna polisemia. E' così...punto.
Poi la ribellione, la rabbia giovanile che metonimicamente si sposta da un oggetto di odio all'altro, facendo di macerie e cadaveri (simbolici, si spera) l'orizzonte omogeneo del nostro sguardo.
Quello tratteggiato non è un percorso universale, ci tengo a precisarlo. Ci sono infinite declinazioni della relazione con Dio, una delle quali può prevedere il medesimo, acritico assetto. Sino alla morte. Ciò è vero soprattutto per chi, per motivi anagrafici o di posizione ideologica, non ha impattato il '68 e ne ha ignorato (o negato) le conseguenze sovversive nei riguardi dei poteri costituiti.


Eppure a ben vedere con Dio non è mai tutto scontato e, di converso: non è mai del tutto vero che si diventa atei qui in Italia. Non sono un esperto di demografia dell'ateismo, è comunque verosimilmente non credente uno scandinavo, un cinese, un olandese o un australiano. Non un italiano.
Da noi i residui di una fede rinnegata sono tracce incancellabili, perlopiù. Si intravedono nei sogni, si notano nei codici morali delle condotte, si evidenziano drammaticamente nelle dinamiche della colpa e della vergogna.
E' interessante notare che molti psicologi continuano a sposarsi, anche in chiesa. Si tratta di un dato in controtendenza. Ma non so quanti psicologi arrivino a riconoscere il peso specifico della propria parte di sé cattolica. Perché un paio di maniche è ri-conformarsi, sulla scia di una giovinezza evaporata, ad uno status quo ante. Altra cosa è guardare dentro quei resti, i residui di cui scrivevo poco più su...
In questi anni, più di dieci, di lavoro clinico, ho imparato ad avere rispetto per chi crede. Rispetto vero e profondo, perché entro la cornice della fede ho visto compiersi gesti di aiuto, di solidarietà e sostegno alle minoranze; ho visto e ascoltato persone autenticamente interessate all'altro. Ho raccolto storie commoventi dove il proprio modo di vivere Dio è stato un propulsore rilevante e centrale per lo sviluppo di individui e comunità.
Quello che pongo alla riflessione, mia e di chi legge, concerne la pericolosità del sentire il monoteismo cristiano quale dimensione puramente trascendente. L'esclusivo, univoco rapporto con chi crediamo guidi il nostro destino dall'alto, dentro un disegno, una teleologia già data a priori. Non mi soffermo sul problema intrinseco ai monoteismi, ossia il configurare chi non crede come scarto dal praescriptum, quale nemico estraneo al verbum dei. Ne conosciamo, tristemente, gli estremismi.
Preferisco un esempio concreto.
V. è un uomo che ha più di sessant'anni. Viene da me perché, a suo dire, ha "momenti di assenza". In altri termini V. soffre di stati dissociativi ripetuti, pezzi di un tempo sottratto alle relazioni ostensibili e usato per ritirarsi nel proprio mondo interno.
Spesso in quel mondo privato, silente, incomunicabile alla sua famiglia, V. cerca la "voce di Dio". Simbolizza confusivamente "Il Signore" come Colui che gli mostrerà la via, esentandolo dalla responsabilità di riprendere in mano la sua esistenza, segnata da lutti (uno dei quali traumatico e devastante) e sopratutto da errori del passato di cui continua a colpevolizzarsi. E' convinto che deve esimersi "dal fare qualcosa", dal configurare un progetto per il suo futuro, perché "Lui vede e provvede". Prega spesso, in solitudine, eppure una remota parte di sé, non più totalmente sepolta dalla difesa maniacale del diniego onnipotente, lo ha condotto in consultazione psicoterapica. Non si tratta forse di una scelta, di un'azione che contrasta con l'idea di passività che si auto-attribuisce?
Queste scissioni emozionali, di cui comincia ad avere percezione, lo incistano in una sofferenza tremenda. D'altro canto i suoi laceranti dubbi sul senso del divino e della vita non riesce a condividerli. La sua facciata ufficiale, in famiglia, è quella del Padre rigorosamente cattolico e moralista. Tra lui e i figli, per esempio, la figura di Dio è un ingombro che finisce per dividere, fino a divenire un Terzo ideale al quale egli si aggrappa per sfuggire alle incomprensioni, per tentare di imporne la venerazione o per saturare ogni discorso in cui sente divergenza dalle proprie convinzioni.
Arriva a dirmi che per lui Dio è più importante dei propri figli, allineandosi alla superiorità dell'etica religiosa con cui Soren Kierkegaard connota il sacrificio di Isacco da parte di Abramo.
In linea con quell'affermazione, seppur inconsapevolmente, racconta della visita della figlia, giovane donna che vive in Olanda. Lei vorrebbe parlargli (si scoprirà solo tempo dopo che aveva desiderio di comunicargli qualcosa di molto importante) ma lo trova davanti al televisore, a seguire il Santo Rosario. V. le chiede di aspettare qualche minuto, legittimamente, dato che sta facendo qualcosa per lui molto importante. Ma la figlia scappa via in lacrime e tronca ogni discorso...
Preso in sé l'episodio sembra un capriccio "regressivo" da adolescente (la ragazza ha ben oltre vent'anni). Il punto è che V. reitera di continuo queste mancanze di attenzione e tatto nei confronti dei propri cari, in nome di Dio.
"Avevo fame e mi avete dato da mangiare..."; "Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me...". Rispondere a una domanda, umana. La domanda di una persona qualunque. Dovremmo ricordarci di questa corrispondenza immanente tra l'umano e il divino. Non sei d'accordo V.? Riconosci queste parole?
E' da qui che siamo ripartiti, e forse sta anche qui il senso profondo di una relazione psicoterapeutica. Aiutare qualcuno a cambiare mitologie disfunzionali, sino a riedificare miti più utili alla convivenza produttiva...
Pensiamo alla scissione di V., ma anche alla scissione, su un piano più ampio, tra il trascendente e l'immanente.
Immanente, da immanentem, composto dalla particella in che indica quiete e da manentem, participio passato di manere, ossia rimanere. Rimanere quieti, in qualche modo aperti all'incontro con l'altro. In filosofia l'immanenza fa riferimento a ogni realtà coessenziale con altre. Permanente in altrui e che in altrui non passa, recita una definizione antica e splendidamente "simmetrica", per dirla con Matte Blanco.
Ogni relazione duale, tra l'altro, ne rende coessenziali i due partecipanti. Ma ogni relazione per essere produttiva di "qualcosa di terzo" (una condivisione, un progetto congiunto, una riflessione posta a qualcuno che la arricchisce) deve "trascendere" la dualità, avere un vettore che ne fuoriesce.
V. aveva fatto del rapporto con Dio una questione puramente trascendente, ma racchiusa in una dualità privata e mortifera. La trascendenza non può essere duale, pena l'attorcigliarsi in un paradosso. Dio e me stesso...Dio è lassù, fuori di me...ma al contempo, dentro di me, ne sento la voce. È ciò che dice V., il quale tuttavia non si accorge di chi gli è prossimo. Eppure se riconosco la presenza divina in me (essere all'unisono con il riflesso di Dio) devo necessariamente coglierla nei miei simili. Altrimenti sono io a elevarmi, a trascendere me stesso nella "deità".
Di contro se Dio o (laicamente) le qualità umane che riconosco in me le vedo anche nell'alterità, recupero la dimensione immanente (comunitaria) che posso riconnettere a ciò che trascende. Trascendere, ossia salire al di là. Ciò che ascende al di là di noi, però, non può essere (del tutto) previsto, prescritto o già segnato dal destino...
La variabilità ci sorpassa salendo.

Colui lo cui saver tutto trascende, fece li cieli...




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