sabato 12 marzo 2016

A cosa serve lo psicologo? Alcune riflessioni

Sono stata da uno psicologo tempo fa. Un'esperienza breve ma utile...poi ho smesso di andarci perché stavo meglio.

Mio figlio ci andava sì, c'è rimasto per un pò ma poi ha smesso di andare perché stava peggio.

Ecco due asserzioni, due modi complementari di connotare un percorso di consulenza psicologica. Due presunte verità che giustapposte finiscono per essere una contraddizione in termini, un paradosso logico. In realtà queste rappresentazioni rendono unicamente evidente il senso comune che le sussume. Ossia che si va dallo psicologo per attutire uno status di sofferenza; quindi per affidarsi a qualcuno che ci esima (magicamente?) dal provare angoscia, dolore, afflizione, panico...e si potrebbe continuare a lungo.
Non sto dicendo che non sia legittimo affidarsi a uno psicologo con una sintomatologia simile, sarei uno sciocco. Ma appunto, si tratta di sintomi e vissuti che necessitano di essere trattati analiticamente, cioè devono essere (ri)collocati in un percorso di attribuzione di senso. Un senso che lasci da parte le scontatezze, i consigli, le semplificazioni e le rassicurazioni. Si tratta di sviluppare, con lo psicologo, un pensiero competente, fondato su modelli di lettura complessi, sugli eventi problematici che ci hanno condotto in consultazione.


Lacan diceva che andare in analisi equivale a darsi la possibilità di ripartire, di rialzarsi e ricominciare a vivere. Ri-conoscere la contingenza di un momento critico e darsi la possibilità di trasformarlo in un'occasione.
In un'epoca edonistica, liquida, dissolta nel presentismo mass-mediaco e nella rarefazione della fiducia nei rapporti, risulta quantomeno controcorrente fare una scelta come questa. Chi cazzo me lo fa fare? Mi prendo un pò di Xanax, magari mi faccio prescrivere un antidepressivo di nuova generazione e via...ho risolto. Altro che psicologo!



Già, eppure con alcuni miei pazienti ho un rapporto che dura da anni. Sono idioti, mentecatti che si fanno raggirare? No di certo. Spesso sono donne che hanno il coraggio di guardare in faccia le loro emozioni, di guardarle e trattarle con tutto il carico di sofferenza che comporta il mettersi profondamente in discussione. Qualcuno diceva che non può esserci apprendimento senza frustrazione e poche cose sono più vere e autentiche di questa riflessione. Apprendere, sì. Apprendere un metodo per continuare a fronteggiare gli accadimenti, gli scivoloni, le contraddizioni, le docce fredde e le soddisfazioni che la vita, che la variabilità della vita continua a mettere sul nostro cammino.
Lo sanno anche gli uomini come Giuseppe, Sandro, Jacopo, Carlo...persone del presente e del mio passato di professionista i cui volti mi tornano in mente mentre scrivo. Sanno, dopo un significativo percorso psicoterapeutico, che l'importante non è ciò che hanno fatto di noi ma quel che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi (J.P. Sartre). Non si tratta di mandare a memoria una formuletta pseudo-esistenzialista. No. Si tratta di lasciarsi attraversare da una quota importante di sofferenza per traguardare ad altro: alla soggettivazione del nostro desiderare; alla connotazione progettuale di un nuovo futuro configurabile. A partire dal presente.


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