giovedì 28 luglio 2011

Il tornare indietro e l’andare avanti…

…ché, se non lo sapete, di questo è fatta la vita, di momenti: non perdere l'adesso (J. L. Borges).

Resoconto di una consulenza in un Centro di Salute Mentale

Una giovane donna torna al Centro di Salute Mentale (CSM) ciclicamente. Le volte precedenti, oltre allo svolgimento di colloqui preliminari, ha dapprima richiesto ed ottenuto una certificazione che ne attesta un lieve ritardo mentale, tramite l’ausilio della Wechsler Adult Intelligence Scale. In seguito è stata sottoposta ad ulteriori test cognitivi a conferma della diagnosi.
E’ un afoso pomeriggio d’inizio maggio quando si ripresenta per un colloquio. Finalmente la psichiatra di turno che l’ha ascoltata, cartella clinica alla mano, fa una cosa intelligente: sospende l’azione e riconosce la confusione che questa giovane evoca nell’altro, specularmente alla propria. In altri termini non sa cosa vuole.
La psichiatra cerca uno psicologo per consultarsi ed incontra chi scrive questo resoconto, tirocinante presso il suddetto CSM da oltre un anno. Gli racconta di quella confusione, chiedendogli di sostenere un ulteriore colloquio con la donna, perché lei, la psichiatra, fatica a capire il motivo per cui sia di nuovo qui.
Si coglie l’interesse per la giovane oltre all’implicita richiesta di una funzione psicologica orientante. Al momento della consegna della cartella clinica lo psicologo tirocinante comunica alla psichiatra che incontrerà la donna senza affidarsi ciecamente ai referti testistici, rinunciando al contempo ad una proposta consulenziale preconfezionata. D’altro canto se continua a domandare confusivamente qualcosa un problema poco esplorato deve pur esserci. Magari è stufa di passare per ritardata.
La donna, che chiamerò Emanuela, è in effetti presa entro una scissione emozionale che da un lato la spinge a rincorrere la diagnosi definitiva che sancirebbe la sua invalidità civile, rinunciando quindi a quella parte di sé in grado costruirsi un lavoro; d’altro canto è ancora presente e viva quella dimensione di desiderio a non conformarsi alla non-conformità che il ritardo mentale comporta, qualora preso alla lettera. In questo senso dice infatti allo psicologo tirocinante che di recente è stata licenziata dal lavoro di barista, lavoro che era riuscita ad ottenere proponendosi attivamente, andando a parlare con i gestori di molti esercizi della sua zona di residenza.
Ne è rammaricata, racconta che ci teneva ma non riesce a fare ipotesi sul perché sia stata allontanata. Non ha chiesto, non ha voluto riscontri, non si è nemmeno incazzata. Emerge poi che ha difficoltà con i calcoli aritmetici, questione che l’ha messa in crisi le volte in cui si è trovata a dover gestire la cassa, i soldi, il resto da consegnare a chi ha pagato una consumazione. Questo le ha fatto pensare che il suo ritardo fosse vero ed indiscutibile, assumendosi la posizione di vittima silente, pronta a sorbirsi le decisioni degli altri.
Le propongo una consulenza che le chiarisca il senso di una diagnosi che al momento la schiaccia come fosse una croce da trascinarsi sulle spalle, capendo insieme come possa immettersi in un sentiero di reversibilità, a partire dal riconoscere quello che lei vuole, che mi ha comunicato indirettamente in seduta: la voglia di tenersi un lavoro che la emancipi anche dalla dipendenza dal padre, visto che prova vergogna ogni volta che è costretta a chiedergli dei soldi (Emanuela non vede sua madre da molti anni ma considera la compagna attuale del padre come una seconda mamma).
Ci vediamo per otto sedute ma è soltanto quando mi interrogo sulla tenerezza che provo per lei che riesco a costruire un servizio valido. E’ una sorta di indulgenza ideologica che fa il paio con la rabbia che nutro nei confronti di chi le ha diagnosticato il ritardo, nel contesto del CSM. Una svalutazione che ab initio direziono individualmente, nell’idea di lasciar fuori chi “non ne è responsabile” (tutor incluso). Poi mi torna in mente che la cultura del “a domanda rispondo” è, per l’appunto, una cultura che ironicamente ingenera l’effetto collaterale del non togliersi più dalle palle gli utenti.
Ma quella tenerezza è perlopiù la conferma emozionale che sto vedendo anch’io Emanuela come una minus habens, lasciando sullo sfondo le risorse, importanti, che continua a portare in seduta. E’ quella parte di Emanuela che trasmette rassegnazione, finendo per evocare quella bonarietà aggressiva che mette gli altri nella condizione di manipolarla e di incistarla nel ruolo di vittima. I gestori del bar presso cui lavorava, tra l’altro, si sono guardati bene dal fornirle spiegazioni, sulla scia emozionale di una “pietà” liquidante. Quando pensiamo insieme a questi aspetti, la donna comincia anche a mettere dei limiti alle richieste continue e soffocanti della sua famiglia, che si traducono in azioni pedisseque da parte sua: pulire casa, occuparsi della nonna disabile, fare la spesa, cucinare, senza mai dividere le mansioni con il fratello e le sorelle, ad esempio, o con la compagna del padre, casalinga.
Gradualmente si accorge che ci sono cose che la interessano molto, come la lettura, cui dedica i ritagli di tempo tra una faccenda domestica e l’altra, di come non le vada più di rinunciarci in nome della sacrificalità. Riflette poi con lo psicologo circa il dire sempre di sì a tutto e a tutti, una modalità che equivale a far fuori se stessa e gli altri. Comincia a pensare che può permettersi di chiedere e scambiare, perché ad esempio la sorella è piuttosto brava in matematica e potrebbe darle una mano per quel suo problema con i calcoli; dal canto suo un modo di sdebitarsi non faticherebbe a trovarlo, qualora le chiedesse il modo. O facendole una proposta.
Man mano che le sedute si susseguono Emanuela è sempre più a contatto con le sue emozioni, in grado di guardare criticamente al percorso diagnostico che ha iniziato a scuola, contesto in cui alle sue difficoltà con la formazione veniva dato un nome diverso: disturbo dell’apprendimento.
Si rende conto che infondo sono i contesti in cui si è che conferiscono identità, arrivando talvolta a stigmatizzare le individualità laddove non si capisce più cosa succeda, ad esempio, tra chi organizza una formazione standardizzata e chi sente di subirla. O dando per buono, come lei stessa ha fatto, che i risultati ottenuti ai test di intelligenza siano dovuti al fatto che “è scema”, piuttosto che considerarli quale traccia di una lacuna culturale. Ricorda che nel multi-etnico ambito scolastico, al tempo delle medie inferiori, aveva difficoltà di integrazione. In famiglia non davano peso al suo rapporto con la scuola. Si assentava spesso e non era mai stata coadiuvata da qualcuno a pensare all’utilizzo dell’apprendimento. In classe la prendevano in giro, forse anche perché mancava di iniziativa nello stare nei rapporti tra pari. Era sempre sulle sue. Le capita anche attualmente, quando attende passivamente le chiamate delle amiche per uscire la domenica.
Ad Emanuela viene poi in mente che potrebbe riprendere un percorso formativo, anche per valorizzare professionalmente quel che sa già fare: occuparsi degli anziani, come quando si prende cura della nonna paterna, da tempo affetta da una patologia che ne limita fortemente la capacità di deambulazione.
Prima della fine del percorso di consulenza le propongo di scegliere se continuare o meno per altre otto sedute, prospettandole di approfondire ulteriormente alcune aree di lavoro, tra cui la questione del rapporto con il padre, di cui aveva iniziato a parlarmi cogliendone la dimensione di reciproco possesso. Ma le dico anche che l’andare insieme nel tempo che ci siamo dedicati le ha dato spunti importanti per comprendere dove e come posizionarsi nel futuro.
Comprendo che qualcosa è cambiato quando mi dice di sentire che il nostro rapporto le è servito per imparare di nuovo a socializzare. Ora può permettersi di continuare da sola.

Conclusioni


Stare sul senso simbolico di una domanda di consultazione forse consente di economizzare le risorse di un Servizio come il Centro di Salute Mentale, laddove i problemi di sovraccarico di lavoro e di utenti “cronici” sembrano più la conseguenza inattesa di un funzionamento organizzativo routinario (accogliere, assistere, rispondere adesivamente alle domande, cronicizzare nei casi “gravi”, senza mai arrivare a dimettere) che un dato di fatto.
La richiesta di consultazione della psichiatra nei confronti del tirocinante rappresenta una discontinuità importante nei processi di lavoro spesso automatizzati del CSM.
Quando si è iniziato a considerare criticamente certi eventi, da parte di qualcuno (la difficoltà a dimettere gli utenti “storici”), il tirocinante ha resocontato oralmente la consulenza con Emanuela, considerando che al di là dei limiti si è trattato di un lavoro orientato a valorizzare le risorse di una persona rispetto al proprio contesto (il lavoro, i rapporto sociali). L’alternativa dell’insistere sui test, del calcare “pietisticamente” la mano sul ritardo mentale per agevolare il percorso di assegnazione di invalidità civile avrebbe potuto ingenerare ricadute sul sistema sociale più ampio o sullo stesso CSM, chiamato in causa ciclicamente per le revisioni biennali dell’invalidità. Ma soprattutto avrebbe contribuito, considerando la storia di Emanuela, a distruggere ulteriormente la già precaria autostima di una persona. Questo, inutile scriverlo, sarebbe stato davvero grave.

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